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La risoluzione del Consiglio di Sicurezza sugli insediamenti israeliani nella cosiddetta Cisgiordania ha suscitato molte reazioni che si sono, inevitabilmente, polarizzate.

In un suo recente articolo su Strade Carmelo Palma ha messo in evidenza come nel dibattito tra favorevoli e contrari si siano confrontate due opposte ipocrisie: quella di chi ha applaudito perché ritiene che siano i coloni e gli insediamenti israeliani a giustificare e rendere legittimo il rifiuto palestinese a qualunque negoziato con Israele, e quella di chi considera la risoluzione e l’astensione del rappresentante degli Stati Uniti “come segno di ostilità preconcetta contro lo stato ebraico e la sua leadership e non come una sanzione all'oggettivo mutamento della politica israeliana sul tema degli insediamenti e più in generale sul futuro dei territori occupati nel 1967”.

A partire da questo assunto poco accettato e diffuso tra i nemici di Israele o tra gli amici della cosiddetta causa palestinese - e dalla constatazione del fatto che è difficile se non proprio materialmente impossibile individuare il “secondo” dei due Stati e dunque l’interlocutore con il quale Israele dovrebbe negoziare e fare la pace - Palma sostiene che si profila, comunque, un problema per gli amici di Israele che dovrebbe indurre a rivedere le ragioni della loro amicizia. Scrive, infatti, che se l’impossibilità di raggiungere un accordo “diventa la giustificazione e il pretesto per colonizzare le terre che la Bibbia «assegna» al popolo ebraico allora la questione della difesa di Israele cambia segno e cessa di essere una questione di diritto, di giustizia e di legalità internazionale”.

Seguendo questo ragionamento la risoluzione ONU e la posizione assunta dal rappresentante degli Stati Uniti nel Consiglio di Sicurezza dovrebbero essere considerati dagli amici di Israele come un atto con il quale si è scelto di segnalare che in Israele starebbe avvenendo “un mutamento storico, senza precedenti” – determinato dagli equilibri politici interni e dal peso determinante dei partiti religiosi - e di sanzionare “la legittimazione all'uso dei territori occupati nel '67 e congelati nell'impasse di una pace impossibile come territori tout court conquistati”.

In questa ottica la risoluzione ed il posizionamento dell’amministrazione Obama dovrebbero essere letti come un tentativo di mettere in mora la classe politica israeliana dal compromettere la possibilità di tenere in vita l’opzione dei “due popoli due stati”. Peccato però che con la risoluzione approvata dal Consiglio di Sicurezza, tra le altre cose, non si faccia nulla per scongiurare il fatto che l’opzione “due popoli due stati” non resti soltanto una sorta di feticcio - o meglio un modo per evocare in termini più presentabili una questione, come quella palestinese, ormai fuori dall’agenda - e soprattutto che, più in generale, non sembra esserci alcuna iniziativa internazionale credibile che tenga conto del modo in cui la comunità palestinese viene amministrata, e che sia espressamente finalizzata a far sì che anche il secondo dei due popoli possa essere “rappresentato”, avere una politica e non essere dunque identificabile soltanto con “una somma polverizzata di rivendicazioni, minacce e ostilità contro Israele e il popolo ebraico” destinate, come dimostra l’attentato di domenica 7 gennaio, a divenire una crudele realtà della quale rivendicare la paternità.

Alla luce di queste valutazioni e senza essere in grado di entrare nel merito del dibattito politico israeliano e dunque di pronunciarsi sulla natura epocale dei mutamenti in atto e sulla irreversibilità delle scelte che sta compiendo il governo Netanyahu, penso che la risoluzione e la posizione assunta dall’amministrazione Obama possano essere letti tenendo presente un punto di vista alternativo rispetto a quelli che si sono confrontati dopo il voto del Consiglio di Sicurezza. Si tratta delle parole utilizzate l’11 settembre 2001 dall’allora segretario del Partito Radicale Transnazionale Olivier Dupuis che scrisse come all’origine della tragedia delle torri gemelle vi fosse “anche e nella misura in cui ciò ci riguarda direttamente (…) soprattutto la cultura e la politica profondamente razzista, anti-Araba e anti-islamica che l'Europa e l'Occidente coltivano e promuovono da decenni sostenendo con una costanza senza cedimenti le peggiori dittature nel mondo arabo e islamico”. E aggiunse: “Questo razzismo vuole che gli Arabi e, più generalmente, gli abitanti dei paesi musulmani non abbiano diritto alla democrazia, allo Stato di Diritto, alla libertà. (...)"

Il tempo trascorso non rende, a mio giudizio, inattuali quelle parole, semmai fa sì che continuino ad essere utilmente dissonanti. Il “razzismo” denunciato allora non può essere considerato come un qualcosa di archiviato e superato. Al contrario sembra esprimersi e riflettersi, con ancora maggiore forza, nell’impostazione e nelle scelte di fondo della comunità internazionale, e - ahinoi - delle opinioni pubbliche, secondo le quali la difesa del diritto di ciascun individuo, ovunque nasca e viva, alla democrazia, allo stato di diritto ed alla protezione delle libertà fondamentali ed inviolabili continuano a non essere considerati - ormai quasi senza più contraddizioni - come fattori imprescindibili che devono essere fatti concretamente principiare.

Non è questa la sede - e non sono certo io che posso farlo – per rileggere le vicende degli ultimi 15 anni e comprendere le dinamiche e le logiche con le quali sono state affrontate. Si può, però, constatare con amarezza come da una comunità internazionale che affida alla Russia di Putin, alla Turchia di Erdogan ed alla Repubblica Islamica dell’Iran il disegno dei nuovi equilibri medio-orientali è difficile attendersi altro se non quell’applauso e quella risoluzione. La comunità internazionale e - lo ripeto - le opinioni pubbliche sembrano aver archiviato l’interventismo democratico e bollato le operazioni di polizia internazionale come omaggio alla logica della guerra e frutto della sudditanza delle classi dirigenti rispetto alla lobby delle armi.

Allo stesso tempo il fondamentalismo religioso e terrorista vengono spesso considerati come una risposta ed una conseguenza delle scelte “belliciste” o dell’egoismo rapace dell’Occidente. Anche nel mondo radicale si è fatta largo l’idea – falsa e falsificante almeno quanto quella sintetizzabile con l’espressione “tutta colpa del liberismo” – secondo la quale quel che accade è la conseguenza inevitabile delle scelte di Bush e Blair e del rifiuto deliberato di una concreta alternativa al conflitto ed allo scontro inevitabili contro quanti ritenevano, e ritengono, la democrazia, lo stato di diritto e le libertà fondamentali un privilegio occidentale dal quale tenersi lontano.

Una comunità occidentale che salva - o che accetta che venga salvata – la dittatura di Assad e che affida il futuro della Siria a Putin, Erdogan ed agli ayatollah iraniani, e che non riesce a concepire se stessa – pensiamo per esempio all’Europa - se non come un luogo nel quale accogliere, o dal quale espellere, le persone che scappano dalle altri parti del mondo, finisce conseguentemente per non porsi il problema dello stato delle istituzioni e dei diritti delle persone che vivono fuori da Israele.

Una volta accettate, o comunque ritenute inevitabili, l’impostazione e le scelte sopraevocate diviene quasi necessario, infatti, ignorare il problema del collasso politico-istituzionale della cosiddetta Autorità Palestinese, ed offrire un appoggio ad un presidente come Abu Mazen eletto nel 2005 e decaduto da 7 anni che, da una parte, si riserva il potere di scegliere tutti i membri della Corte Costituzionale Palestinese, di togliere l’immunità dei quali godono i membri del Consiglio Palestinese e non è in grado di organizzare delle elezioni, e dall’altra può prendere la parola all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite  e riferendosi alla dichiarazione Balfour può chiedere “alla Gran Bretagna di trarne le conseguenze e di assumersi le sue responsabilità storiche, giuridiche, politiche, materiali e morali e di agire per porre rimedio a quella catastrofe storica e rimediare alle sue conseguenze”.

Ma se si ritiene trascurabile la questione palestinese e l’incapacità di quelle classi dirigenti di compiere scelte - basti ricordare che fine hanno fatto le proposte sin qui fatte dai governi israeliani – e di rinnovarsi e di rigenerarsi si finisce per tradire ed archiviare la prospettiva apertasi con gli accordi di Oslo e la logica del “due popoli, due stati”, ancor prima ed a prescindere dal “mutamento storico” della politica israeliana e dai condizionamenti imposti dai partiti religiosi.

La prospettiva che si era aperta con i famosi accordi di Oslo poteva - e può - essere tenuta credibilmente tenuta viva, infatti, a condizione di conciliare, nell’ambito di un negoziato globale, il diritto a vivere in sicurezza dei cittadini israeliani e quello degli arabi e dei palestinesi che vivono nella stessa area geografica ad auto-determinarsi ed auto-organizzarsi nel pieno rispetto dei principi e delle convenzioni internazionali. Ecco perché Marco Pannella al Parlamento Europeo nel 2006 alla “vecchia politica dei due popoli, due Stati” contrapponeva l’alternativa “due popoli, due democrazie!” e la necessità di proporre “a tutto il Mediterraneo riforme democratiche ed il modello federalista europeo anti-nazionalista”.

Alla luce di quel giudizio sulla prospettiva “due popoli, due Stati”, divenuta ancor più vecchia ed inattuale nel momento in cui l’Occidente sembra aver archiviato l’alternativa prospettata da Marco Pannella - che negli anni successivi alla logica dei due stati ha contrapposto spesso quella di una sola Costituzione democratica liberale e federalista – ritengo sia doveroso, specialmente per chi, invece, continua a ritenere necessario affermare e tenere viva quell’alternativa, prendere le distanze dalla risoluzione approvata dal Consiglio di Sicurezza, stigmatizzarne la miopia, l’ipocrisia ed il razzismo nell’accezione contenuta nella ricordata dichiarazione di Olivier Dupuis.

Ed è parimenti doveroso denunciare sia ogni tentativo di espungere dal confronto tra le parti e dal negoziati il principio secondo il quale in entrambi gli "stati" deve essere garantito il diritto, a tutti senza distinzioni, di stabilirsi e di organizzarsi liberamente, sia ogni tentativo di consegnare illusoriamente, ancora una volta, i diritti e le speranze di quanti vivono in Medio Oriente alle leadership che hanno voluto e fatto sì che vivessero senza diritti da poter esercitare qui ed ora coltivando soltanto la speranza di vivere in un modo spacciato per migliore perché senza Israele e - come dimostra la sorte dell’attentatore Fadi al-Qanbar - la tragica illusione di trasformare quella speranza in realtà abbattendo e schiacciando con un camion dei giovani soldati israeliani che in un giorno di festa si apprestavano a visitare la città di Gerusalemme.