borgese grande

“Il presente razionalizza il passato. L’Italia era, almeno virtualmente, il campo di battaglia dei Rossi e dei Neri, mentre le distinzioni intermedie andavano via via scomparendo fra i due estremi. Se ci fosse stato un oracolo e gli fosse stato chiesto: ‘Chi dominerà l’Italia?’ l’oracolo avrebbe risposto: ‘Colui che è contemporaneamente rosso e nero’”.

(Giuseppe Antonio Borgese, “Golia, marcia del fascismo”, 1937).

“Le distinzioni intermedie”. Quanto a dire, la necessaria molteplicità e varietà del pensiero, dell’azione, della vita. Sempre neglette, queste distinzioni intermedie, come un fastidioso ostacolo lungo la via di un semplicismo infantile: spesso servito dalla violenza.

E dal velo ipocrita delle “intenzioni”, più o meno “buone”: invocate, dagli immancabili scribi e scribacchini di complemento, a coprire la verità umiliante di un sentimento pubblico così totalitario, e totalmente instupidito.
Borgese, nato a Polizzi Generosa (PA) il 12 Novembre di 140 anni fa, in quell’Italia non poteva starci, perché nessuna mente libera può stare al gioco, e al giogo, del dogma, o della superstizione, che è un dogma senza panneggi. Figurarsi di un doppio dogma, di una doppia superstizione.

Fu un eretico, fra I Rossi e i Neri, e se ne andò in America.

Al suo ritorno, dopo la guerra, Mondadori (suo editore in eclisse, dopo la destituzione dalla Cattedra di Estetica nell’Università di Milano), volle dare un ricevimento in suo onore. E forse anche a propria mondana discolpa.

C’era questo e c’era quello, fra gli “italiani di penna”, già accomodati fra le accoglienti pagine della nutrita editoria del Regime: e ora pronti ad una nuova avventura di “militanza e di servizio”, all’ombra occhiuta e comprensiva di Togliatti. C’era pure Pietro Paolo Trompeo, fra questi militanti neri e rossi, rossi e neri: capace di squisite glosse estetiche, come di pronto orientamento diciamo “ambientale”.

Borgese era stato il maggiore critico letterario del Belpaese e, dalle colonne del Corriere, fu leggibile anche da una platea più ampia di quella riservata, e talvolta angusta, dei letterati di professione: e non aveva prestato “Il giuramento dei Professori”.

Era ingombrante, perché con la sola sua presenza, con il solo suo passato, svergognava e sminuiva: per lo meno quanti serbavano un minimo di autocoscienza, come Trompeo. Perciò questi non trovò di meglio che aggirare l’imbarazzo ricorrendo alla goffaggine di un “Buonasera, Peppantonio”: che Sciascia nota essere stata una specie di reductio sicilianizzante, a sfondo sarcastico-misconoscente.

Insomma, non un raro italiano né Rosso né Nero, ma una sbiadita e marginale figura, buona al più per inghirlandare una qualche pro loco insulare. E Sciascia, quasi chiosando queste intersezioni di grandezza e di miseria, volle notare: “a proposito di Borgese si può dire che la storia della cultura la fanno gli eretici di ogni eresia. Il che gli osservanti, gli ortodossi, i fideisti, non capiscono e non approvano”.

Non capiscono e non approvano. Ma, soprattutto, non capiscono. Perché, quando non sono arroganti, e non capiscono perché arroganti, sono comunque cretini, e non capiscono perché cretini.