imen jane big

Il web 2.0, con l’affermarsi dei contenuti generati e pubblicati dagli utenti a discapito di quelli prodotti e divulgati dai media tradizionali, ha spianato la strada all’avvento della nuova categoria degli influencer: divulgatori digitali, esperti - reali o presunti - delle materie più disparate.

Esattamente come i divulgatori dell’era analogica, molto spesso gli influencer non sono scienziati, chef, fotografi, videomaker di professione, ma comunicatori - nella migliore delle ipotesi esperti, nella peggiore appassionati - di discipline di cui trattano a vario titolo. Raramente, però, quel titolo è accademico o professionale.

Da sempre, infatti, il credito che un divulgatore vanta dipende esclusivamente dall’attendibilità delle informazioni che fornisce. Lo stesso vale per gli influencer dell’era digitale.
Ciò non significa che, per ignoranza o incapacità del pubblico di verificare le fonti, anche dei pessimi divulgatori non possano avere un seguito invidiabile, ma non godranno di buona reputazione tra chi si occupa delle loro stesse materie a titolo accademico o professionale.
È certamente possibile divulgare ricette di cucina, impartire lezioni di fotografia digitale o offrire consigli di stile, anche con ottima cognizione di causa, ma è evidente la differenza che corre tra Benedetta Parodi e uno chef stellato, tra Chiara Ferragni e lo stilista di una grande casa di moda, tra Salvatore Aranzulla e Bill Gates.

Sotto questo punto di vista, l’economia, per quanto a molti piaccia dipingerla come una disciplina alla stregua della medicina o dell’ingegneria, non è diversa dalla cucina, dalla moda, dall’informatica e, data la confusione generata in questi giorni, è bene ribadire che Imen Jane, l’influencer autoproclamatasi economista millantando una laurea presso la Bicocca di Milano, certamente non è un’economista, ma non per il motivo che tante testate adducono.
Non esistono abilitazione o esercizio abusivo della professione di economista. Non è richiesta alcuna laurea per fare gli economisti o per dirsi tali, e nessuna facoltà rilascia “patenti di economia”. Economista è chi l’economista fa, per ricerca o per mestiere. Al contrario, chi parla di economia è un divulgatore economico.

Il fraintendimento secondo cui sarebbe necessario un qualche titolo accademico per dirsi economisti è soltanto frutto di un’odiosa difesa corporativa, volta ad erigere barriere all’ingresso della categoria.
Sarebbe paradossale, infatti, considerare un laureato in economia che decide di intraprendere tutt’altra carriera più economista di chi, laureato in diversa materia o persino fermatosi alla maturità, svolga attività di ricerca in campo economico.
Friedrich Von Hayek, illustre esponente della Scuola austriaca e vincitore del Premio Nobel per l’Economia nel 1974, era sì laureato, ma in giurisprudenza e scienze politiche. Qualcuno oserebbe affermare che non fosse un economista?
Per analogia con altre discipline, si possono citare i casi di Frank Lloyd Wright e Tadao Ando - due dei più importanti architetti dello scorso secolo - che non si sono mai laureati in architettura. Il giapponese, Premio Pritzker nel 1995, prima di dedicarsi all’architettura da autodidatta, si guadagnava da vivere come camionista e pugile. Allo stesso modo, la storia del giornalismo italiano è costellata di illustri personaggi - Enzo Biagi su tutti - che non hanno mai conseguito la laurea.

Imen Jane ha mentito sul proprio titolo di studio — questione morale di cui ha già risposto davanti ai propri followers e agli investitori di Will, dimettendosi dall’incarico che ricopriva nella start-up italiana della comunicazione. Tuttavia, resta il fatto che quel che le manca per dirsi economista non è la laurea, ma il curriculum. Un pensatore come Hayek ha dedicato la propria vita alla ricerca e all’insegnamento in campo economico; Imen Jane no. È tutta qui, la differenza sostanziale.

In realtà, quello delle testate - soprattutto online - che oggi si affrettano a prendere le distanze dall’influencer di origini marocchine e a chiedere scusa ai lettori per averle dato spazio sulle proprie pagine non è altro che un tentativo di mettere le mani avanti, nella speranza che nessuno faccia notare loro la fallacia logica in cui si sono cacciati. O la divulgazione di Imen Jane è corretta e di qualità - e lo resta a prescindere dal titolo di studio - o la sua preparazione economica è scadente, così come quella dei giornalisti che non si sarebbero accorti del presunto bluff. Tertium non datur.
Dagospia, testata da cui è partita l’indagine sulla laurea della ragazza, ha fatto del sano giornalismo, che non può che fondarsi su un dovere ben preciso: la verifica delle fonti e delle informazioni. Dovere, questo, troppo spesso trascurato da giornalisti che preferiscono cavalcare acriticamente l’onda del momento, nella speranza di racimolare qualche click in più della concorrenza. Dissociarsi, a cose fatte, è più semplice e conveniente, ed è parte integrante del malcostume giornalistico italiano.