albano grande

Il presidente della Commissione Trasporti, Poste e Telecomunicazioni della Camera (una commissione di talenti poliedrici che ha le competenze per occuparsi in eguale ed eccellente misura di TAV e Festival di Sanremo), tale Morelli, ex direttore di Radio Padania, quindi uno che di musica buona si intende, ha recentemente portato avanti una proposta di legge dalle ambizioni rivoluzionarie: salvare la musica italiana dall’invasione del Lanzichenecco globalista. La misura sarebbe divenuta improvvisamente colma all’indomani della vittoria a Sanremo di Mahmood, che la narrazione leghista vuole straniero nonostante le carte dicano che sia meneghino come ce n’è rimasti pochi.

Il primo presupposto fallace è che la musica sovrana venga ingiustamente e sistematicamente maltrattata. Cito a riguardo Stefano Pistolini: 19 dei 20 album più venduti nel 2018 risultano essere italianissimi. Inoltre, nelle classifiche dello streaming, autori emergenti italiani dominano sistematicamente anche nei confronti di blasonati artisti internazionali. Per capirci: Ultimo e Irama schiacciano Lady Gaga e Calvin Harris nelle classifiche Spotify e Youtube. Risulta dunque davvero difficile sostenere che ci sia necessità di agire in forza sui palinsesti radiofonici, sia perché difficilmente oggi rappresentano il gusto dominante, sia perché la musica italiana è ben lontana dall’essere in crisi di consenso. Provocazione: sarebbe magari più opportuno intervenire per ripulire i grandi network radiofonici italiani dalla malsana attitudine di inondare di chiacchiere qualunquiste l’ascoltatore riducendo la programmazione musicale a una mera media di sole sei canzoni/ora?

Il secondo presupposto sbagliato è che si possa imporre un costume e un gusto collettivo con una misura delicata come una zampa d’elefante. In maniera analoga a quanto detto a proposito della Legge Franceschini, quando stabilisce soglie minime di contenuti nostrani a emittenti private, qui si cerca di imporre per decreto alle radio, e dunque agli ascoltatori, quello che è giusto ascoltare. Ahimè il mondo funziona in maniera leggermente diversa nel presente individualista, liberale e secolare in cui al di là di tutto viviamo: il consumatore ha sempre ragione. Dunque se non gli metti le canzoni che gli piacciono alla radio, le ascolta su Spotify, non è che cambia gusti.

Peraltro urge dire che la radio è un mezzo usato prevalentemente da fasce di popolazione più in là con gli anni e di gran lunga meno sensibili, oltre che in media ritenute meno interessanti dall’industria discografica, rispetto a quelle che oggi guidano l’evoluzione del gusto musicale (ad esempio in direzione trap), vale a dire i teenager e i giovani adulti. Questi infatti usufruiscono in larga maggioranza dell’esperienza musicale in streaming, canale che non è invece neanche considerato. E perché allora non imporre un tetto di italianità alle cover trasmesse da Amici e X-Factor, ormai riconosciuti vivai del talento musicale tricolore? E perché non alla musica non originale usata nelle pubblicità o nei film italiani?

Infine, trovo altresì ironico che in un momento di bassa storica delle relazioni gallo-italiche, ci si ispiri apertamente al cugino francese (che impone una soglia del 40% della musica nazionale in radio) nel legiferare per difendere la purezza della nostra cultura.

Ma lo spirito del tempo va abbracciato, e dunque lasciate da parte le varie considerazioni di ordine razionale, mi lancio a comprendere lo streben patriottico dell’iniziativa, e anche le chiarissime condizioni di urgenza, e mi spingo anzi a proporre una doverosa integrazione: sarebbe forse il caso, in ottica di autonomismo regionale, riservare una sotto-quota del palinsesto anche alle grandi tradizioni musicali locali? Sembrerebbe infatti opportuno difendere le canzoni di Regioni chiaramente sottorappresentate dal Barbaro radiofonico, vedi ad esempio il Veneto o il Piemonte, rispetto allo strapotere degli autori chessò napoletani o romani. Mi resta però un dubbio: Mahmood andrebbe poi considerato in quota Regione Lombardia?