Re Luigi XIV

Il successo del Brexit nel Regno Unito, di Trump negli Stati Uniti e l’avanzata di movimenti anti-sistema in tanti paesi, tra cui l’Italia, sta generando una reazione da parte della cultura mainstream, specialmente quella di orientamento progressista, che va oltre i termini fisiologici del confronto politico.

La sensazione è che ci sia stia allontanando, un po’ ovunque, dal modello di una contrapposizione tra due opzioni parimenti legittimate dal gioco democratico, verso uno in cui tutto il mondo “per bene” si salda per condannare ad uno stato di “minorità morale” una parte politica e l’elettorato che la sostiene.

Va detto che, per molti versi, è stato proprio il nostro paese a fare da apripista a questo tipo di atteggiamento, come ha dimostrato un ventennio di demonizzazione di Silvio Berlusconi e del popolo del centro-destra.

Di fronte alla “destrizzazione” dello scenario politico di buona parte dei paesi occidentali, oggi è proprio da sinistra che arrivano più di frequente segnali di fastidio nei confronti dell’esito della democrazia e di sfiducia nei confronti degli elettori. L’idea che non si possano lasciare le decisioni importanti al “popolo ignorante” ricorre sempre più, benché evidentemente, sottovoce. Un recente articolo del Washinton Post, uno dei maggiori quotidiani dell’America “liberal”, ha posto la questione in termini espliciti: “gli americani ignoranti non dovrebbero votare”.
E l’idea che se avessero votato solo le persone istruite avrebbe vinto la Clinton (o il Remain) è stata, di recente, uno dei mantra preferiti della stampa. Insomma troppi, a sinistra, per usare le parole di Bertold Brecht, appaiono desiderosi di “sciogliere il popolo e di nominarne un altro”.

Eppure, il senso del suffragio universale era proprio quello di evitare che alle élite culturali ed economiche fosse conferito un peso sproporzionato, magari addirittura esclusivo, nella decisione pubblica. Peraltro, che la diffusione dell’istruzione migliori la qualità della decisione politica è, in realtà, molto dubbio, così come il fatto che metta al riparo dal “populismo”.

Basta guardare alla storia dell’ultimo secolo per rendersi conto di come la cultura non sia stata minimamente un argine ai totalitarismi. La Germania dove prese piede il Nazismo era, ad esempio, uno dei paesi più culturalmente evoluti del continente europeo. E quante persone di cultura in Europa hanno subito la fascinazione del comunismo? Paradossalmente mentre tante persone comuni che vivevano ad Est dietro al cortina di ferro anelavano la libertà e l’Occidente, una sola categoria di persone ha idealmente compiuto per decenni il percorso inverso: guarda caso proprio gli intellettuali.

Bisogna anche considerare come nel nostro paese il livello di istruzione si sia costantemente alzato nel tempo. La frequenza del ciclo secondario è ormai obbligatoria e ci sono oggi molti più laureati di 10, 20, 30 o 40 anni fa. Insomma oggi gli italiani sono più istruiti che in qualsiasi epoca passata. Ma possiamo davvero sostenere che la qualità del loro voto sia, nel tempo, aumentata allo stesso modo? Possiamo davvero dire che questo paese abbia più chiara oggi la giusta direzione da prendere di quanto l’avesse l’Italia molto più ignorante che negli anni ’50 generò il nostro “miracolo economico”? Probabilmente no, altrimenti, verosimilmente non avremmo i problemi che abbiamo.

Mutatis mutandis, anche i paesi arabi che abbracciamo l’islamismo più estremista sono oggi relativamente istruiti quanto mai prima in passato. Davvero decenni di scolarizzazione sempre più universale hanno posto, in quelle aree del mondo, i presupposti per maggiore libertà e democrazia? Il vero punto è che la libertà è molto più una questione morale di quanto non sia una questione di istruzione. I princìpi della libertà personale ed economica – cioè in definitiva l’idea del rispetto per gli altri – sono talmente semplici che non richiedono una mente culturalmente evoluta per essere compresi. Tali principi si accettano perché si sentono intimamente giusti. Oppure si rifiutano perché si percepiscono come intimamente sbagliati – e se avviene questo, non c’è scuola e non c’è università che possa portare a capirli ed a riconoscerli.

Anzi, per alcuni versi, l’istruzione moderna – scuola pubblica ed università pubblica – ha persino indebolito la comprensione dei fondamenti morali dell’economia, promuovendo una cultura del diritto universale a tutto. Le ultime generazioni sono cresciute potendo dare il benessere per scontato e senza necessità di comprendere il nesso che esiste tra produzione e consumo di ricchezza. In fondo viviamo in un mondo in cui basta premere un pulsante e si accende la luce, girare un rubinetto ed esce l’acqua ed in cui fin da bambino ti insegnano che oggi le nostre società vivono in un’era di ”emancipazione” e che quindi tutto quello che nel passato era una conquista, oggi è, in partenza, un “diritto”. 
Non stupisce che in queste condizioni l’impatto con le condizioni della vita reale, dopo la fine del periodo ovattato degli studi, sia per tanti un’esperienza ingrata che viene elaborata nel modo peggiore. Ci si sente defraudati dei diritti sociali che si credeva di avere acquisito e ci si pone in una posizione vittimista e rivendicativa, pronti a votare “chi offre di più”.

In ogni caso, al di là dei ragionamenti che si possono fare sul livello di istruzione della società rispetto al passato, altre riflessioni sono possibili limitandoci alle differenze di comportamento, in funzione dell’istruzione, all’interno della società italiana di oggi. C’è chi ritiene che le persone più istruite forniscano un contributo qualitativamente più elevato alla discussione pubblica, se restringiamo la fotografia alla società attuale. Molti ad esempio, continuano a ritenere che le élite culturali votino in maniera più “rassicurante”, almeno dal loro punto di vista e che – comunque – siano meno sensibili al fascino di “deleteri populismi”.

Ora si può naturalmente pensare che l’istruzione, se maturata in ambiti richiesti dal mercato, rappresenti un vantaggio competitivo che viene premiato dalle regole di un’economia liberale e pertanto chi “detiene la conoscenza” abbia l’interesse a votare in modo sensato per mantenere un sistema di mercato sano ed efficiente che valorizzi il merito. Il problema è che non viviamo davvero in un sistema di mercato e quindi i laureati non fanno strada, solamente, attraverso i meccanismi che caratterizzano un’economia libera. I laureati, nei fatti, fanno strada nella vita anche attraverso le regole dello statalismo e spesse volte, per loro, più statalismo c’è meglio è.


Nei fatti sono le persone di buona famiglia e di buona cultura quelle che riescono meglio a dominare i meccanismi di un’economia statizzata e burocratizzata e dispongono delle occasioni di socializzazione necessarie ad entrare nei “giri buoni”, quelli che garantiscono posti di lavoro protetti e posizioni di rendita. Le persone istruite – pensiamo agli insegnanti, ai giornalisti, agli operatori della cultura - sono anche le più brave a costruire una narrazione della propria indispensabilità per la società tutta, che non sarà mai alla portata di un commesso, di un artigiano o di un operaio di una piccola impresa. Tagli alla scuola o alla RAI, la chiusura di un giornale, la riduzione di alcuni fondi alla cultura ed allo spettacolo fanno partire immediatamente la grancassa dello sdegno e dello scandalo, quando invece chi non fa parte del cerchio privilegiato perde il posto di lavoro lontano dai riflettori.

I laureati, inoltre, sono anche quelli che meno sentono la concorrenza dell’immigrazione; anche qui la questione non è legata, necessariamente, al fatto che la loro eccellenza li renda meno attaccabili dalla concorrenza di stranieri; piuttosto incide il fatto che i loro posti di lavoro sono quelli che sono stati meglio blindati. Non mancherebbero i softwaristi indiani che potrebbero in teoria far concorrenza a quelli italiani. Non mancherebbero gli insegnanti madrelingua che potrebbero insegnare le lingue nelle scuole in modo competitivo rispetto ai nostri insegnanti di lingua. Non mancherebbero gli albanesi con un livello culturale e di italiano sufficiente da poter lavorare nella nostra pubblica amministrazione. E non mancherebbero i dirigenti stranieri con un background sufficiente da poter assumere posizioni manageriali in vari settori.

Il fatto è che le posizioni non qualificate sono aperte alla concorrenza degli immigrati, mentre, nei fatti, quelle qualificate no. Quanta sorpresa, ha generato di recente la decisione irrituale del ministro Franceschini di ingaggiare, per la prima volta, anche degli stranieri alla guida di musei. Resta un caso isolato; nella stragrande maggioranza dei casi, le posizioni qualificate nel nostro paese sono anche quelle meno “globalizzate”.

Insomma, se i laureati votano in maniera diversa, tendenzialmente più mainstream e meno ricettiva del messaggio delle forze anti-sistema, non è perché la loro cultura li metta al riparo da posizioni “di pancia”, garantisca loro una migliore comprensione delle dinamiche politiche economiche complessive o li predisponga a posizioni più positive, costruttive e solidali. E’ semplicemente perché, come ogni altri gruppo, votano sulla base del proprio interesse percepito che, in larga misura, è un interesse di “status quo”. L’errore, dunque, di una certa lettura è quella di attribuire all’élite uno slancio idealista e disinteressato a favore della liberaldemocrazia e della società aperta, quando invece essa si muove sulla base di riflessi di autoprotezione.

Insomma il voto delle persone più colte può produrre esiti più desiderabili per i progressisti, ma non necessariamente più liberali e più economicamente efficienti. Senza contare che questo tipo di ragionamento è futile perché alla fine votano comunque tutti, i più colti ed i meno colti. E qui si arriva ad un altro dei punti chiave del nuovo classismo della “sinistra establishment”, il fastidio per il fatto che i voti valgano tutti allo stesso modo e si contino, mentre sarebbe così più comodo se si potessero “pesare”.

Ora, è evidente, che i “non colti” non si possono squalificare; non può essere tolto loro il diritto di voto ed allora, non potendo essere messo in discussione il suffragio universale, il tentativo che va per la maggiore è quello di squalificare la democrazia diretta e di offuscare sempre di più il processo di decisione politica. Insomma, opposizione ai referendum perché conducono ad esiti “demagogici”, preferenza per una democrazia intermediata, simpatia per governi tecnocratici “di salute pubblica” e poi naturalmente entusiastico sostegno a costruzioni barocche quali la politica dell’Unione Europea.

E’ chiaro che sarebbe troppo rischioso sostenere che la politica non debba avere una base democratica; tuttavia tanti ritengono che l’esito del voto popolare debba essere filtrato e rielaborato “da chi le cose le capisce” fino a produrre un governo accettabile, cioè il più possibile “in continuità”. La sensazione è che questa strategia di contenimento della cosiddetta minaccia populista sia destinata al fallimento; potrà forse nell’immediato rallentare il cambiamento, introducendo nel processo di decisione politica tutta una serie di inerzie, ma in un’ottica di più lungo periodo non fa che accrescere lo scollamento tra governo e paese reale, alimentando le ragioni dell’insofferenza dell’elettorato.

In definitiva, non è sperabile che la democrazia occidentale possa essere salvata da un’aristocrazia culturale che la protegga dalle scelte sprovvedute del popolo. La democrazia è riscattabile solo da una modifica del sistema di incentivi che è alla base della decisione pubblica, cioè dal ripristino del collegamento diretto tra produzione e consumo di ricchezza, tra spesa pubblica e suo finanziamento. Insomma il concetto fondamentale è che “nessun pasto è gratis”, e l'istruzione non c'entra.