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I fatti del 20 settembre, con le operazioni di polizia contro l’imminente referendum indipendentista, hanno determinato un’escalation della crisi catalana e aprono al tempo interrogativi sullo stato della democrazia anche nei paesi in cui da tempo la riteniamo consolidata.

Le azioni messe in atto dalla “legalità spagnola” contro la macchina organizzativa del referendum catalano sono politicamente molto gravi. Finora abbiamo ritenuto l’Occidente naturalmente immune dal virus autoritario, almeno fin quando governato dai cosiddetti “partiti tradizionali”. Eravamo abituati a stigmatizzare in modo rituale determinate brutte cose in paesi lontani, con il malcelato senso di superiorità di chi si sente ontologicamente "al di sopra" di certe miserie.

Invece in questi giorni stiamo scoprendo che un paese occidentale, se “sfidato”, reagisce secondo gli stessi meccanismi che metterebbe in atto qualsiasi Russia, qualsiasi Cina o qualsiasi Turchia. E dopo che si è gridato al “lupo populista”, ci si accorge che è da un governo del PPE che viene quanto di più simile al fascismo si è mai verificato in Europa in tempi recente: gli arresti, le perquisizioni, la censura.

Si dirà, certamente, che il contesto in cui si inserisce la questione catalana non è assimilabile alle repressioni che si verificano all’interno di dittature conclamate o di paesi visibilmente a “democrazia limitata”. 
Si dirà che la Spagna è una “vera democrazia” e quindi qualsiasi questione può essere affrontata attraverso gli strumenti che la Costituzione spagnola mette a disposizione a qualsiasi cittadino, che viva a Siviglia o a Girona - il che rende in qualche modo futile la rivendicazione di altre e diverse forme di espressione della volontà popolare.

E’ una posizione, però, evidentemente capziosa. Di fronte ad una netta maggioranza strutturale unionista a livello spagnolo, saldata tanto da convenienze economiche quando da considerazioni di prestigio nazionale, non esiste alcuna possibilità per i catalani di esprimere una volontà di cambiamento istituzionale attraverso i dispositivi della democrazia centralista - non più di quanto sussista per i curdi attraverso le elezioni nazionali turche o per i circassi attraverso le elezioni nazionali russe. Oggi nei fatti, rispetto alle proprie ambizioni, un cittadino catalano si trova, al più, nelle medesime condizioni di “democrazia limitata e sotto tutela” in cui può trovarsi un abitante di Hong Kong.

E’ un tipo di scenario che in fondo, come italiani, ci dovrebbe essere abbastanza familiare. Basti pensare al fatto che, nel 2006, Lombardia e Veneto furono le uniche due Regioni a votare “sì” al referendum costituzionale che avrebbe conferito all’Italia un assetto federale e al fatto che la loro scelta fu neutralizzata dal voto compatto delle Regioni che beneficiano della spoliazione fiscale del Nord. Se mai questo referendum fosse ripetuto in futuro, ci sono pochi dubbi che l’esito sarebbe ad oltranza il medesimo. Insomma, in tutti quei contesti in cui la politica si articoli (anche) su contrapposizioni di interessi territoriali, un modello democratico che si identifichi con il semplice criterio della maggioranza a livello complessivo finisce per sfociare, inevitabilmente ed immutabilmente, nella storiella dei due lupi e dell’agnello che votano per decidere cosa mangiare a cena.

E’ evidente che le questioni legate all’autonomia ed all’indipendenza non potranno mai essere risolte rimanendo all’interno dei concetti della democrazia centralista, ma potranno ora essere affrontate solo nel momento in cui le relazioni istituzionali siano ricondotte su una dimensione orizzontale, dove ogni comunità politica, per quanto eventualmente “federata”, conservi il diritto a pronunciarsi in ogni momento sul proprio futuro.

Insomma, è la Catalogna e solo la Catalogna che deve votare sull’eventualità di costituirsi in uno Stato indipendente – ed il fatto che il referendum sia oggi tecnicamente “illegale”, secondo la continuità costituzionale spagnola, non attenua in alcun modo la responsabilità politica del governo spagnolo.
 Nei fatti, è ormai un decennio che il processo indipendentista catalano si è avviato e Madrid, se ne avesse avuta la volontà politica, avrebbe avuto tutto il tempo di negoziare i termini di un “referendum pactado”.

Non si dica, da questo punto di vista, che la scelta proibizionista del governo di Rajoy sia “normale”, né tanto meno l’unica possibile per uno Stato degno del proprio nome, perché solo tre anni fa in Europa il Regno Unito di Cameron ha fornito l’esempio di come si possa negoziare con un governo regionale un percorso per un referendum indipendentista che si situi nell’alveo di una “legalità condivisa”. Gli scozzesi hanno potuto votare ed incidentalmente ha vinto la posizione contraria alla secessione, a dimostrazione che, se una unione è buona e serve gli interessi dei cittadini, gli unionisti non dovrebbero avere paura delle urne.

Si può senz’altro affermare che, tra i tanti elementi di grandezza della democrazia anglosassone, c’è anche il fatto che è stata in grado di fare seriamente i conti con i temi dell’autodeterminazione e del “diritto di decidere”. Il Canada ha consentito al Québec due volte, nel 1980 e nel 1985, di votare per la piena sovranità. Il Regno Unito ha fatto lo stesso con la Scozia nel 2014 e darebbe la stessa opportunità all’Irlanda del Nord se lì un giorno una maggioranza lo richiedesse – ed anche il recente referendum sulla Brexit ha risposto al medesimo principio di espressione dal basso.

La verità è che oggi non c’è più un solo Occidente; ci sono due Occidenti che stanno divergendo nelle loro concezioni costituzionali ed istituzionali. C’è un Occidente che resta legato ad una visione gerarchica e piramidale del potere per il quale i vecchi stati unitari possono essere superati solo dall’alto, cioè da nuovi e più apicali livelli di supremazia; ma c’è anche un Occidente – che al momento si identifica prevalentemente con l’anglosfera – che pare ormai aver maturato il concetto che le appartenenze comunitarie non possono essere considerata immutabili ed ineluttabili ma devono essere riverificate nel tempo e costantemente fondarsi sull’effettivo consenso dei cittadini. Il primo punta sulla “robustezza”, cioè sulla sua capacità di resistere, in quanto “costruzione perfetta”, agli stress della realtà. Il secondo, invece, per usare le parole di Nassim Nicholas Taleb, è “antifragile” e trae linfa vitale da processi di ridefinizione continua.

La competizione tra questi due modelli sarà probabilmente una delle principali chiavi di lettura della politica dei prossimi anni e definirà il concetto stesso che avremo di democrazia – se essa possa sostanziarsi nella mera “alternanza nel sistema”, oppure se l’invecchiamento della contrapposizione destra-sinistra non ci imponga di consegnare ai cittadini la deliberazione democratica sui bipolarismi emergenti della nostra epoca, in primis quello tra centralismo e decentralizzazione.