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La discussione della riforma costituzionale su cui gli italiani saranno chiamati a esprimersi il 4 dicembre è tesa tra i concetti di conservazione e innovazione, di vecchio e di nuovo, di continuità e rottura. Nessuno dei due schieramenti, per ragioni diverse, accetta però un connotato conservatore. Entrambi si contendono la rappresentanza, se non il monopolio, dell’innovazione.

Visto da dentro, dal punto di vista militante dei sostenitori dell’una o dell’altra posizione, lo scontro è “nuovo contro vecchio”. Visto da fuori, da parte di chi analizza le dinamiche e i linguaggi di questo scontro, esso è piuttosto “nuovo contro nuovo”.

Il concetto stesso di riforma suggerisce, nel merito, l’idea di un progresso, di un avanzamento o, per usare un termine neutro, di un cambiamento più o meno coraggioso e più o meno rispondente e adeguato alle necessità del Paese. Dico “nel merito” perché accade che questa riforma – che riscrive 47 articoli della Carta e quindi ne cambia in profondità i connotati, pur senza modificare la forma di stato e di governo della Repubblica – rappresenta di fatto la conservazione di un “metodo”, per cui il potere e la stessa legittimità della riforma sono riservati alle forze di un fronte repubblicano, che nella Prima Repubblica coincideva col vecchio arco costituzionale, e che, sotto vari colori e con molteplici trasformazioni, è di fatto da sempre al governo dell’Italia.

A questo fronte, di cui Renzi non è il fondatore, ma l’ultimo erede, si contrappone una schiera sempre più vasta di partiti anti-sistema, che oggi sono schierati per il No e chiedono di fatto di conservare il “merito” delle norme costituzionali – delle più datate come delle più recenti – ma, attraverso la bocciatura della riforma e del Governo, vogliono creare uno strappo di metodo tale da sconvolgere gli equilibri politici e da innescare una crisi di sistema paragonabile a quella del 1992-1994.

A questo punto, qual è il vero voto di rottura? A giudicare dagli endorsement giunti da soggetti non esattamente rivoluzionari e gli appelli al mantenimento della stabilità attraverso il Sì, viene da pensare che la vera rottura avverrebbe paradossalmente attraverso una conservazione del merito delle norme costituzionali e il conseguente strappo a livello di metodo, con la delegittimazione di una classe politica conosciuta e “consumata”, che ha dato prove alterne di sé, in favore del cosiddetto “nuovo che avanza”.

Tuttavia non sarebbe una novità neppure l’affermazione di avanguardie misoneiste, a difesa di un ordine minacciato o addirittura per la restaurazione di un’epoca mitica. Non per questo, quando sono apparse sul palcoscenico della storia, sono state meno avanguardistiche nei modi, e dirompenti negli effetti. Però questo ossimoro – avanguardia misoneista – dimostra in sé l’impossibile interpretazione univoca del concetto di nuovo. Anche una lettura qualitativa del nuovo – non solo quantitativa: quante facce cambiano, quante norme mutano… – si espone allo stesso equivoco. Se non tutte le novità preludono a veri cambiamenti, neppure tutte le innovazioni comportano i miglioramenti sperati.

Inoltre l’idea della conservazione (in questo caso della Costituzione) o della restaurazione come “nuovo” va letta in relazione al suo presupposto ideologicamente rivoluzionario: l’irruzione dei suoi sostenitori, cioè degli “esclusi”, sulla scena politica. In poche parole, Grillo al Governo a Costituzione invariata sarebbe probabilmente una novità più epocale di quella rappresentata dalla permanenza di Renzi per i prossimi vent’anni a Palazzo Chigi con la sua Costituzione nuova di zecca.

Entrambi gli schieramenti poi sembrano cristallizzare il proprio “nuovo” in una dimensione statica, quasi assoluta, dal sapore più fideistico-dogmatico che contenutistico o razionale. In questo senso il punto di incontro-scontro, il “nuovo” di cui si è detto, resta un concetto astratto e indeterminato, in cui credere per una sorta di fede cieca. La potenza del nuovo nella post-truth policy.

È comunque evidente che entrambi gli schieramenti, nella sfida per la conquista del consenso, puntano su un “nuovo di loro competenza”: i riformatori sulla riforma e gli oppositori sull’opposizione alla classe politica.

La questione a questo punto riguarderà il modo in cui le due accezioni di nuovo saranno digerite e rielaborate nell’immaginario degli elettori e risulteranno persuasive ai fini del voto: perché tutti, giovani, anziani, donne, uomini qualunque cosa votino, voteranno inevitabilmente per una forma di nuovo, di novità, di innovazione, di rinnovamento…

All’interno di questo campo semantico si giocherà l’esito del referendum.