Le scoperte accidentali non sono certo una novità in medicina. Quando facciamo un esame medico per agevolare una diagnosi o verificare il decorso di una malattia, corriamo il rischio di incappare nei cosiddetti "incidental findings". Il test può rivelarci informazioni inattese che riguardano certo il nostro stato di salute, ma che non hanno nulla a che vedere con il motivo per cui abbiamo eseguito l'esame. Un esempio? Le TAC possono rivelare l'esistenza di tumori. Non abbiamo richiesto questa informazione, e tuttavia dobbiamo farci i conti.

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La questione solleva dilemmi etici non indifferenti, toccando da vicino la nostra libertà personale e il nostro diritto di conoscere (o di non conoscere) informazioni rilevanti per la nostra salute. E con l'avvento della genomica in medicina, le cose stanno diventando sempre più complicate. I motivi sono essenzialmente due: la quantità di scoperte che si possono fare con il sequenziamento clinico di un genoma (o di un esoma, che è la porzione di genoma che codifica per proteine) è molto più elevata rispetto a qualsiasi altro test medico; l'utilità di queste informazioni, inoltre, non è sempre chiara e può cambiare rapidamente nel tempo, seguendo di pari passo i progressi della scienza. L'analisi del genoma di un bambino affetto da disabilità mentali, ad esempio, potrebbe rivelare non solo la causa genetica della malattia - rispondendo quindi alla richiesta dei genitori - ma anche, incidentalmente, una forte predisposizione per altre gravi patologie, come malattie cardiache o tumori. Come comportarsi in questi casi?

L'American College of Medical Genetics and Genomics ha provato ad affrontare il tema lo scorso anno, pubblicando delle linee guida in base alle quali il laboratorio che effettua l'analisi genomica sarebbe tenuto a comunicare al medico curante ogni scoperta accidentale riguardante una lista precompilata di mutazioni. Tali mutazioni sono state scelte perché ritenute "actionable", in altre parole è possibile prevenire o curare le malattie che esse provocano. Non sono tuttavia mancate le critiche: qualcuno ha contestato la scelta delle mutazioni inserite nella lista, altri hanno lamentato una lesione delle libertà individuali del paziente, altri ancora hanno fatto notare che il medico curante veniva a trovarsi in una posizione difficile, essendo in possesso di informazioni potenzialmente utili ma impossibilitato a utilizzarle per la cura del suo paziente. Pochi giorni fa, l'AMCG è tornata sui suoi passi. Con una modifica alle precedenti linee guida, viene ora offerta al paziente la possibilità di scegliere se analizzare o meno quelle mutazioni. E tuttavia non si finisce di discutere: alcuni medici pensano che davanti a questa opportunità troppi pazienti sceglieranno di non sapere, e questo - sul lungo periodo - andrà a discapito della loro salute. C'è poi un altro problema: i medici sapranno informare correttamente i loro pazienti sui possibili effetti di una decisione piuttosto che dell'altra?

Nel tentativo di proteggere i pazienti, spesso si cade nell'errore di vietare tout-cout l'accesso a certi test (come sta accadendo con i test genetici commerciali), oppure al contrario di imporre al paziente la conoscenza di informazioni non richieste. La posizione più equilibrata, probabilmente, resta quella di concedere totale libertà di scelta al cittadino, a fronte però di un'informazione corretta e il più possibile completa da parte di chi effettua il test, sia esso un medico o un'azienda. Idealmente, il paziente dovrebbe poter compilare un questionario prima di eseguire il test, e scegliere quali informazioni ottenere e quali no, come dagli scaffali di un supermercato. Dopo tanto paternalismo, forse un giorno ci arriveremo.