Nella war room in campagna permanente. Intervista a Luigi Di Gregorio
Scienza e razionalità
Un viaggio dietro la politica e dentro le campagne elettorali che squaderna approcci, metodi e piani di candidati, leader, liste e partiti. Un originale e chiaro compendio di teoria e prassi sulla comunicazione politica non solo per studiosi e addetti ai lavori. Una prospettiva ad ampio raggio su come si costruisce e veicola l’offerta politica e come si cerca l’incrocio con una domanda politica sempre più esigente e sempre meno partecipe.
“War Room” di Luigi Di Gregorio (Rubbettino) rappresenta quel bagaglio epistemologico razional-scientifico –ma non tecnocratico- necessario in prima battuta per comprendere l’evoluzione della politica e della sua comunicazione e poi per avvincere e convincere gli elettori una volta dentro un comitato elettorale.
Con la competenza, la struttura e il fiuto di chi si è sporcato le mani mettendoci la testa, Di Gregorio indica che al centro ci deve essere la strategia, frutto di visione e preparazione anche con l’uso dei dati, secondo il tridente Capire-Agire-Decidere. “Rem tene, verba sequentur” si diceva in retorica, “prima il marketing, poi la pubblicità” direbbero oggi le aziende. Così forme e formati della comunicazione rimangono in parte sullo sfondo nella loro valenza semiotica e artistica per lasciare spazio nel volume alle leve scientifiche del marketing politico, alla pluralità dei canali di comunicazione, anche digitale, e all’hardware della campagna permanente che, come tale, investe non solo vincitori e vinti, ma anche governo e opposizione.
Proprio lì, nel governare quella divaricazione parallela tra politics e policy sta l’essenza della sfida delle democrazie e delle burocrazie moderne. Tutte, ognuna con i propri attori, sono chiamate a trovare posto nella control room di governo immaginata da Di Gregorio attraverso cambiamenti organizzativi, anche culturali, che ridefiniscono gli usuali assetti degli uffici di diretta collaborazione.
Se il lettore più distratto potrà scambiare le istruzioni contenute nel volume per “politica in provetta”, quello più attento si troverà di fronte a un innovativo paradigma laboratoriale di politica e politiche. Entrambi potranno apprezzare gli exempla offerti dall’esperienza sul campo dell’autore che conferma così la positiva tendenza a scardinare quella torre d’avorio in cui l’accademia politologica si è comodamente rinchiusa, non senza vocazioni pedagogiche.
Dopo lo schema clinico di “Demopatia” più orientato ad analizzare la domanda, con “War room” Di Gregorio completa l’analisi del mercato politico grazie a un focus da marketer schumpeteriano sull’offerta. Per chi ha apprezzato tutte e due le opere dell’autore, appare ora conseguente e auspicabile uno studio su ciò che l’incrocio tra domanda e offerta ha prodotto, con una valutazione di output e outcomes che dovrà necessariamente concentrarsi più sull’azione delle burocrazie che degli attori politici.
Approfondiamo in quest’intervista con l’autore alcuni spunti di riflessione dopo la lettura del libro.
L’era della campagna permanente è la stessa del declino dell’affluenza e della partecipazione elettorale. È possibile che questo rumore abbia allontanato i cittadini dalla politica? Quale marketing può riavvicinarli? È corretto sostenere che questa campagna si gioca ormai su un territorio ormai molto ristretto?
In realtà ci sono due scuole di pensiero: c’è chi sostiene che la campagna permanente e il conseguente impiego massiccio degli strumenti e delle tecniche di marketing abbia allontanato parte dei cittadini dalla politica, ma c’è chi sostiene il contrario, ossia che la politica fosse da tempo in grave crisi di fiducia e che solo grazie al marketing è riuscita a intercettare l’interesse di elettori ormai tendenzialmente “lontani” e disattenti. Questo è il dilemma storico del marketing politico, di difficile soluzione. In ogni caso, non ci sono alternative praticabili.
Siamo al punto in cui siamo per via di alcuni cambiamenti di lungo periodo, ormai consolidati: crisi delle credenze stabili, individualismo, narcisismo, consumismo, mediatizzazione, personalizzazione. Tutte queste direttrici spingono verso un elettorato disorientato, disattento e volatile che si può intercettare solo “inseguendolo” e utilizzando una comunicazione in grado di catturarne l’attenzione e di coinvolgerlo. È un elettorato sempre più ridotto? Si, lo è, non solo in Italia. Ma questo dipende anche dal fatto che in molte democrazie, specie europee, la politica ha perso potere, è meno in grado di incidere sulla nostra vita rispetto a qualche decennio fa.
Questo ha portato con sé delusione verso la categoria e convinzione di poterne fare a meno, da parte di milioni di elettori. Per provare a dimostrare il contrario, gli attori politici assumono una postura di “volontarismo impotente” per cui promettono sempre di più e si presentano come gli unici artefici di un vero cambiamento – pur sapendo di avere ben poche leve per attuarlo davvero – e poi, inevitabilmente, deludono le aspettative (sempre più alte) e alimentano questa spirale di delegittimazione e di disaffezione politica.
Quale marketing può riavvicinare questi cittadini alla politica? Di sicuro non quello inteso come “vendita” o come manipolazione, persuasione occulta, bensì ciò che il marketing dovrebbe essere davvero, ossia un’attività mirata a stabilire una connessione e una relazione di fiducia duratura con i clienti (in questo, elettori). Tuttavia, è più facile a dirsi che a farsi perché da quando il brand politico per eccellenza è il leader, questo ha comportato anche un’estrema difficoltà a fidelizzare nel medio-lungo periodo.
Le persone si contraddicono, sbagliano, ci deludono, ci annoiano presto… era più facile fidelizzare con le ideologie. E infatti gli elettori erano fedeli.
Il volume conferma la professionalizzazione della comunicazione politica, con una parallela esternalizzazione di queste attività a soggetti esterni a partiti e liste. È possibile invece una internalizzazione?
Domanda interessante. In linea teorica sì, ma anche qui è più facile a dirsi che a farsi. Internalizzare certe professionalità implica che i partiti si attivino per acquisire e formare con continuità questi profili.
Qui vedo due limiti però. Il primo limite è economico. È difficile che la politica abbia le risorse adeguate per far concorrenza al mercato, specie in Italia dove negli ultimi anni si è deciso di “affamare la bestia”, lasciandola in mano a finanziamenti dei privati (sempre meno interessati a finanziarla). Senza risorse non attiri i migliori, non puoi fare ricerca, probabilmente non puoi neanche fare una formazione adeguata;
Il secondo limite è di aggiornamento, potremmo dire. Lavorare su tanti fronti – come fanno i consulenti esterni e le agenzie – e in più settori è formativo di suo, ti costringe a stare al passo con tutto ciò che cambia (nella società, prima che nella politica), ti obbliga a studiare e a sperimentare. Temo che una war room di partito, del tutto internalizzata, finirebbe per “burocratizzarsi” e di conseguenza per perdere di efficacia nel corso del tempo. Peraltro, per quanto esistano esperti e consulenti più o meno “schierati”, la loro forza sta nel mantenere oggettività, nell’essere leali ma non fedeli col leader: in sintesi, speaking truth to power.
Dubito che un team di partito possa mantenere questa lucidità e questa “distanza” psicologica dall’identità di gruppo, diciamo. Rischierebbero di essere esperti, ma tifosi. E l’esperto tifoso non serve a niente perché piega il suo sapere alle interpretazioni di parte e non aggiunge valore.
La war room elettorale con tutte le sue componenti è chiamata ad operare con approccio strategico e scientifico. Come si governano invece le variabili emotive e personali del candidato o del gruppo dirigente per scongiurare il rischio di staff follower? Più in generale, come fronteggiare l’irrazionalità?
Una dose di emotività, di “rumore” e di scelte poco razionali è da mettere in conto sempre. La forza dei consulenti esterni sta nel mix tra autorevolezza (data dalla competenza nel loro settore) e indipendenza (lealtà non fedeltà, come detto prima). Serve anche a controbilanciare la “naturale” tendenza di un gruppo a dire sempre di si al capo. Però non dimentichiamoci mai che è il leader che decide in ultima istanza, ed è giusto sia così. Dunque sta a lui (o lei) valutare di volta in volta analisi, suggerimenti e proposte e poi decidere.
Ovviamente, un leader che si crede invincibile e onnisciente sarà molto diverso da un leader che crede nelle competenze, nel teamwork e nella leadership emotiva. Quindi, la premessa per una war room che funzioni è che il leader creda nella sua utilità e sia disposto a mettere in discussione i propri pre-giudizi e le proprie decisioni. Altrimenti si finisce per usare le agenzie di comunicazione a mo’ di tipografie, i sondaggisti solo per guardare le intenzioni di voto e i consulenti a mo’ di ornamenti.
Nel volume parli della necessità di una control room permanente di governo, invocando anche un cambio di cultura organizzativa. Questa trasformazione a livello governativo dovrebbe investire verticalmente ogni singolo ministero. Spesso però le insidie vengono anche da un mancato coordinamento tra la Presidenza del Consiglio e i diversi ministeri. Come istituzionalizzarlo senza centralizzare?
Un certo grado di centralizzazione è inevitabile e direi anche necessario. È vero che, formalmente, il nostro Presidente del Consiglio è primus inter pares per cui non è paragonabile al Presidente degli Stati Uniti o al Presidente della Repubblica in Francia. Tuttavia, proprio perché ha funzioni di coordinamento dell’azione di governo, deve poter coordinare anche la comunicazione strategica. Ecco perché ciò che propongo in termini di control room di governo vale sicuramente anche per i singoli ministri, ma vale soprattutto per Palazzo Chigi, nonché per i Presidenti di Regione e per i Sindaci dei grandi Comuni.
È lì che occorre maggiormente un “comitato elettorale permanente” anche perché è lì che si gioca “la vita o la morte” di un governo nazionale, regionale o locale che sia. Ovviamente in governi di coalizione – come i nostri – questo comporta diverse difficoltà, mi rendo conto. Tuttavia, lavorare per Palazzo Chigi non vuol dire lavorare “contro” i ministeri, né vuol dire lavorare per un partito penalizzando gli altri.
“Demopatia” è stata un’opera dal forte approccio interdisciplinare, mentre “War room” si caratterizza come un lavoro interesperienziale, dove il manuale si fonde con brevi racconti alla mano di esperienze concrete sul campo. Accademia e politica troppo spesso sono come l’acqua e l’olio, eppure sapere e potere sono chiamati se non al connubio, almeno a intersecarsi reciprocamente. Che bilancio fai degli accademici in politica? Qual è il giusto approccio di ogni singola parte?
Non un bilancio positivo, ma è anche giusto che sia così. Il sapere (politologico) deve essere di supporto al potere (politico), non sostitutivo.
Quando Sartori notava che la politica è uno dei pochi ambiti in cui “chi detiene il sapere non detiene il potere” (e viceversa) non auspicava un parlamento pieno di politologi o aule universitarie con i parlamentari in cattedra… Cercava invece di dire che la scienza politica deve essere una “scienza applicabile” e dunque in grado di incidere nelle scelte politiche, in termini consulenziali non sostitutivi. È una cosa che negli Stati Uniti accade da sempre, ma che da noi fatica a decollare.
Una delle ragioni è che oltre oceano la politica è vissuta più come scienza e da noi più come un’arte, in cui servono soltanto fiuto, talento ed esperienza. Nessuno obietta che queste caratteristiche siano fondamentali, tuttavia affiancarle con un approccio data based e con professionalità e competenze utili a fare strategia e a calibrare la comunicazione mi sembra necessario, specie in un contesto mutevole e disorientante quale è quello contemporaneo.