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Proviamo ad andare al di là della solita levata di scudi liberale per fare qualche considerazione in più. “Meritocrazia” è un’espressione che può essere fuorviante: non a caso nacque con una connotazione addirittura distopica, in un’opera di fanta-sociologia di uno scienziato sociale inglese.

“Merito”, secondo le più rapide definizioni disponibili, indica “il fatto di meritare, di essere degno di lode, di premio” o viceversa “di un castigo”. Di conseguenza, al concetto di meritocrazia, quasi sempre usato in senso positivo, è stata data una forte connotazione valoriale; i filosofi direbbero assiologica.

Naturalmente non si tratta di un’interpretazione calata dall’alto bensì di qualcosa che poggia in primo luogo su dinamiche sociali che esistono da sempre, come gerarchia, idolatria e divismo. Nonché naturalmente su una visione del mondo fortemente incentrata sull’“homo faber fortunae suae”, sul concetto di libero arbitrio e, in particolare nella società occidentale e americana, su una visione fortemente premiale della ricchezza e del successo.

È naturale che in un periodo di lunga stagnazione economica, diffusa visione pessimistica del futuro, scarse opportunità di emancipazione e netta percezione di stare peggio rispetto alle generazioni precedenti, la concezione valoriale/premiale del “merito” venga da molti rigettata se non aggredita come una giustificazione farisaica.

Di più: sulla base delle attuali conoscenze e visione del mondo possiamo tranquillamente affermare che non esiste propriamente un “merito” nell’essere “bravi”, cioè nel possedere capacità personali, fisiche, cognitive o di altro genere, particolarmente sviluppate, e nell’essere posti dalle innumerevoli combinazioni della vita in condizione di rendere meglio degli altri. Questo vale in ogni ambito: si tratti dello scienziato, dello sportivo o del grande artista.

Ciò che ha “valore” semmai è il lavoro prodotto dalla persona, il contributo che è in grado di dare alla società, e solo in questo senso la sua capacità di lavorare e contribuire. I corollari di una concezione ormai del tutto superata di libero arbitrio devono essere abbandonati al passato o lasciati alla produzione narrativa. Ma allora il concetto di meritocrazia è un falso mito ipocrita e classista da buttare al macero come sostengono alcuni?

Mi pare che un sistema cosiddetto meritocratico vada invece difeso e rafforzato per tre ragioni principalmente, cioè perchè è utile a:
1) incentivare ciascuno a fare il proprio meglio, necessariamente con meccanismi premiali;
2) creare più opportunità per sviluppare le propensioni di ciascuno, contrastando inevitabili inerzie sociali;
3) allocare le risorse umane nel modo più efficiente: cercare di dare il ruolo di ricercatore a chi più probabilmente produrrà buona ricerca, ruoli gestionali a chi meglio saprà gestire, ruoli educativi a chi meglio saprà educare, e così via.

Una società “meritocratica” non è nient’altro che una società aperta. La meritocrazia non è da intendere come una questione valoriale bensì metodologica, come ad esempio l’economia di mercato e a mio parere anche la democrazia (in senso stretto).

Naturalmente ciascuno potrà valutare quanto questa concezione sia applicata da chi si dice propugnatore del “merito”.