terremoto Lisbona grande

Di tutte le cose entusiasmanti che le minoranze antipopuliste hanno oggi sentito nell’aula del Senato dalla voce del Presidente del Consiglio, sentendosi risarciti della propria (si spera passata) minorità, fa eccezione il tributo al populismo ecologista di Papa Francesco con una citazione tutt’altro che “banale” nelle sue implicazioni politiche e culturali: "Le tragedie naturali sono la risposta della terra al nostro maltrattamento. E io penso che se chiedessi al Signore che cosa pensa, non credo mi direbbe che è una cosa buona: siamo stati noi a rovinare l'opera del Signore”.

È certo vero che i fenomeni pandemici (che nella storia umana precedono di gran lunga l’iperurbanizzazione) sono favoriti, come ha ricordato il presidente Draghi, dall’invadenza delle megalopoli umane negli ecosistemi naturali e su questa base si è sviluppata una letteratura di precisione quasi profetica, sui rischi di cui stiamo facendo esperienza. Ma l’idea che l’ordine naturale sia di per sé buono per l’uomo e diventi cattivo solo quando viene da questi manipolato e manomesso è davvero una vecchia superstizione: tanto laica, quanto religiosa.

La storia della razionalità è anche la storia della tragedia intellettuale della consapevolezza di quanto la natura, nella sua “naturale” violenza, sia una quotidiana smentita alle teodicee e alle filosofie della natura ottimistiche. Il terremoto di Lisbona di metà ‘700 segnò un punto di svolta decisivo nel pensiero illuminista. Le “tragedie naturali” non sono, né possono essere considerate punizioni (come le religioni le hanno per secoli considerate, proprio per giustificare la bontà altrimenti ingiustificabile degli dei), ma semplicemente fatti di cui gli uomini sono misura, nel senso del “buono” e del “cattivo”, proprio perché in quanto uomini non risolvono la propria identità nel solo profilo "naturale" (cioè animale).

Tutto questo – le rimasticature di un teleologismo naturalistico non meno vecchio del politeismo arcaico – ha purtroppo immediate ricadute politiche, nel modo non solo di organizzare, ma di intendere il rapporto con la natura e nel senso di intendere tanto più rispettoso un atteggiamento meramente conservativo e non “ingerente”. È la ragione per cui, essendo oggi la transizione ecologica dei paradigmi di vita (e quindi di attività e di produzione) la principale sfida tecnologica e scientifica della nostra generazione, la generalità della popolazione continua a viverla come la necessità di un ritorno a un’età dell’oro della natura inconcussa, che non è mai esistita.