reportvaccini

Un paio di settimane fa ho ricevuto una telefonata del tutto inattesa. Il professor Gaetano Privitera, dell’Università di Pisa, mi chiamava per chiedere consiglio su come rispondere a Report che la sera prima (il 3 aprile, per essere precisi) aveva sintetizzato in pochi minuti due ore di intervista, stralciando frasi isolate, enfatizzando gli istanti in cui perdeva la pazienza, dipingendolo come goffo, impacciato e contraddittorio e, soprattutto, snaturando il significato di quel che aveva voluto dire.

Un’esperienza comune a chi, abituato a parlare al microfono di un congresso o dalla cattedra di un’aula universitaria più che alle telecamere, armato di buona volontà, si presta a dare spiegazioni a giornalisti televisivi, che poi lavorano di taglia e cuci montando le dichiarazioni a loro piacimento. “Non è per la mia reputazione scientifica – ripeteva – che non dipenderà certo da questo, ma per tranquillizzare i genitori. Che cosa penseranno?”. La sinossi del servizio, infatti, iniziava con toni più che allarmanti: “Cinquecentomila neonati italiani ogni anno succhiano, direttamente dai biberon dell'ospedale, residui di ossido di etilene, un gas cancerogeno secondo l'Oms”. Terrificante, no? Come peraltro è terrificante la conclusione della maggior parte dei servizi prodotti dalla trasmissione, tanto da aver fatto coniare l’ormai famosa battuta: “Più estremisti dei fruttariani, ci sono solo i reportariani, cioè coloro che si nutrono solo di quei pochi alimenti ancora non bollati come pericolosi da Report”.

Non entrerò qui nel merito della trasmissione sui biberon, di quella sulla Coca-Cola o sugli strumenti chirurgici, per citare solo le ultime puntate. Tutte sono infatti state scavalcate da quella di ieri, in cui sotto i riflettori è stato messo il vaccino contro il papilloma virus, in sigla HPV.

Alla luce delle esperienze passate, a mio parere, ci si poteva aspettare anche di peggio. Ma se il meglio è nemico del bene – scusate il gioco di parole - forse il peggio in alcuni casi è quasi quasi meglio del male. Mi spiego. Esistono programmi che, ai tempi del caso Stamina, hanno alimentato l’illusione di centinaia di famiglie con un’informazione assolutamente di parte, priva di qualunque fondamento scientifico, o hanno fatto credere ai malati di cancro che si potessero curare con una dieta sana e l’aloe. Hanno avuto conseguenze gravissime, che non è il caso di stare a ricordare. Le considero il peggio del peggio. Distillati di disinformazione, senza una goccia di verità.

Ma il tono di quelle trasmissioni, a metà tra l’intrattenimento e il giornalismo di inchiesta, era coerente con i loro contenuti scandalistici. Tanti ci sono cascati, certo, ma perfino il nome del programma già svelava l’attitudine dei suoi protagonisti. Bastava poco per capire che non c’era da fidarsi. Report è diverso. Ha una reputazione d’acciaio (sebbene si continuino a sentire persone che si sono ricredute sulla sua affidabilità, non appena è stato sfiorato un tema di loro competenza). L’approccio sembra serio. Il tono pacato. Non mancano i distinguo. Insomma, tutt’altra credibilità. E l’aggravante di far parte di un servizio pubblico, pagato con il canone dei cittadini, per cui ci si aspetta che non dovrebbe essere solo l’auditel a farla da padrona.

In passato, invece, non sono mancati servizi costruiti a tesi precostituite. Un amico neuroradiologo in un grande ospedale milanese, contattato per parlare dei rischi cancerogeni legati ai cellulari, dopo aver tranquillizzato l’inviata si sentì dire: “Ma se mi dice che non ci sono pericoli seri, io, il servizio, come lo faccio?”

Questa volta, però, non credo che sia stato questo il difetto della trasmissione. Mi sono confrontata ieri sui social network con Alessandra Borella, l’autrice del servizio, e mi sono convinta della sua buona fede. Non penso che il suo sia stato un lavoro a tesi precostituite. Ciò non toglie che il risultato finale sia stato, in pratica, disastroso. In sintesi, se non avessi le conoscenze che ho, e domani dovessi portare mia figlia all’ASL per la vaccinazione, sarei piena di paure. E forse rinuncerei, così come altri genitori hanno dichiarato oggi, sulla scia di un programma in cui si è più volte ribadito “che non si voleva andare contro il vaccino”, ma solo fare chiarezza su alcuni punti: i suoi effetti collaterali, la farmacovigilanza in Italia, la trasparenza e l’indipendenza con cui l’Agenzia europea per i medicinali (EMA) dà le sue indicazioni.

Ecco, la chiarezza è stata la grande assente nel servizio di ieri, forse perché ognuno di questi spunti avrebbe meritato ben altro approfondimento. Come ha scritto Daniela Minerva su Repubblica, “un’occasione mancata”. Non solo per chiarire i dubbi che ancora serpeggiano su questa vaccinazione, sia in termini di importanza che di sicurezza, ma soprattutto per affrontare le questioni, reali, e davvero scottanti, sulle modalità di finanziamento dell’EMA, sollevate da persone di tutto rispetto, come Silvio Garattini dell’Istituto Mario Negri di Milano o Peter Gøtzsche, direttore del Nordic Cochrane Center di Copenaghen, uno dei più importanti centri di ricerca indipendente del mondo.

Il problema, a mio parere, è che queste questioni andavano affrontate separatamente, per non dare l’impressione ai telespettatori che i giusti richiami a una maggiore trasparenza indicassero pericoli volutamente nascosti in vaccini somministrati ormai a circa 80 milioni di persone, per lo più ragazzine, in tutto il mondo. Ragazzine che nella trasmissione erano rappresentate solo da alcuni casi sporadici che riferiscono un corteo di sintomi, dai dolori muscolari alla stanchezza cronica, di cui non è stato possibile al momento chiarire la natura né tanto meno il legame con le vaccinazioni.

Grande spazio a Yehuda Shoenfeld, le cui tesi sul legame tra vaccini e malattie autoimmuni non sono mai state dimostrate, anzi. Ma soprattutto, il peggiore errore, secondo me: quello di affiancare punti su cui si potrebbe, e si dovrebbe, seriamente discutere, come le modalità, l’efficacia o la trasparenza della farmacovigilanza in Italia, con bufale acclarate come quelle di Antonietta Gatti, la fisica “esperta di malattie misteriose”, moglie del farmacista Stefano Montanari, che da anni denunciano contro ogni evidenza scientifica la presenza di metalli pesanti pericolosi e “nanoparticelle inquinanti” nei vaccini, oltre che nei cibi. Per accertarlo, a pagamento, rivolgersi a Nanodiagnostics, il laboratorio di loro proprietà.

Eppure, di questi clamorosi conflitti di interessi, l’autrice del servizio non sembra al corrente. Non conosce un personaggio tristemente famoso nell’ambiente, e non da ieri. E si lascia forse abbindolare. Se Riccardo Iacona, a Presa Diretta, è riuscito a fare due capolavori di corretta informazione come le due puntate dedicate rispettivamente al caso Stamina e ai vaccini, è stato forse perché si è appoggiato alla consulenza di un giornalista scientifico preparato come Marco Piazza, per anni responsabile della comunicazione di Telethon. A volte, forse, vale la pena di appoggiarsi alle competenze altrui, quando ci si avventura in campi complessi di cui si sa poco, per cui è facile farsi trarre in inganno. Io, se mai dovessi scrivere di banche o di agricoltura, lo farei.

Ma i conflitti di interesse di chi sostiene bufale antivaxx, come il pericolo dei metalli pesanti, non fanno notizia. I conflitti di interesse, i possibili intrighi vanno cercati nelle autorità, di cui la gente non ha più fiducia, che vuole vedere ulteriormente screditate. Ed ecco allora che si fa balenare la vecchia storia di un funzionario corrotto, che non ha nulla a che vedere con il vaccino anti HPV, ma scandisce bene il ritmo del programma, ché lì proprio ci voleva.

Affiancare il tema dei possibili effetti collaterali di un vaccino con quello degli interessi economici significa creare una miscela comunque esplosiva, e di efficacia garantita, come ben sanno gli antivaxx, che quando rimangono senza argomenti tirano in ballo “gli interessi delle case farmaceutiche”, quasi che queste dovessero agire come associazioni no profit. Certo che le aziende guadagnano sui vaccini. Come sugli altri farmaci. Così come guadagna l’industria automobilistica sulla vendita delle automobili. Ma questo non significa che si sabotino apposta i freni.

Invece basta l’odore di un conflitto di interessi in gioco per far schizzare in alto la percezione di un rischio, anche se le due cose non sono nemmeno lontanamente correlate tra loro. Anche quando del losco c’è, infatti, non è detto che abbia a che fare con l’efficacia o la sicurezza del prodotto in questione. Ne abbiamo avuto prova con l’introduzione all’inizio degli anni Novanta del primo, vero vaccino che aveva anche un importante effetto anticancro, quello contro l’epatite B. L’Italia fu tra i primi Paesi a renderlo obbligatorio fin dai primi mesi di vita, con una strategia che si rivelò vincente e venne presa a esempio dal resto del mondo. Questa storia di successo fu però inquinata dallo scandalo per le tangenti intascate dall’allora ministro della sanità Francesco De Lorenzo e dal direttore generale del servizio farmaceutico nazionale, Duilio Poggiolini, che hanno poi giustamente pagato il loro debito con la giustizia. Questa storia, spesso citata dagli antivaxx, è esemplificativa di certe vecchie, cattive abitudini della politica italiana, ma non dice proprio nulla sulla sicurezza e l’efficacia di un vaccino che protegge contro il virus considerato responsabile della maggior parte dei tumori al fegato nel mondo.

Non bisogna confondere agli occhi del pubblico i temi della sicurezza con quelli dell’indipendenza della ricerca, a meno che non vi siano prove concrete che le aziende abbiano occultato o distorto i dati. È successo, per alcuni farmaci di grande diffusione, come antinfiammatori e antidiabetici, e potrebbe ricapitare. Per questo è importante che i giornalisti di inchiesta preservino la loro reputazione di “cani da guardia”, pronti a svelare eventuali scandali quando ci sono davvero. Non è detto che se ne verifichino due o tre a settimana, tanto da poter riempire ogni lunedì la scaletta. Ma nel momento in cui si trovano prove effettive, dati, documenti, di qualcosa che non va, bisogna avere una credibilità tale da poterle presentare al pubblico, senza che questo sia diventato scettico, “vaccinato” da anni e anni di falsi allarmi.

Altrimenti si rischia di far passare l’idea che qualunque dubbio sollevato sul comportamento delle case farmaceutiche sia sempre e comunque “complottismo”, mettendole al sicuro in una botte di ferro. E a questo punto, sì, che Big Pharma ringrazierà.