Il test del DNA non è una prova definitiva di colpevolezza
Scienza e razionalità
Ce lo hanno insegnato le serie TV, e ce lo ricordano regolarmente i programmi di approfondimento di cronaca nera: il test del DNA è la prova per eccellenza, capace di mettere la parola fine a qualsiasi indagine. Quando il profilo genetico di un sospettato combacia con quello rinvenuto sul luogo del delitto non c'è controprova, alibi o testimonianza che tenga: il colpevole è stato trovato. In galera! - grideremo - e mi raccomando: buttate la chiave!
Effettivamente, la probabilità che il profilo genetico di due persone coincida è infinitesima. Lo afferma la statistica, e noi ci fidiamo. Hai voglia a dire che il test del DNA indica presenze e non colpevolezza, nella nostra testa il collegamento è pressoché automatico. Ebbene, alla luce dei risultati di uno studio apparso recentemente sul Journal of Forensic Sciences, sembra che dovremo rivedere le nostre convinzioni, anche per quanto concerne la capacità del test del DNA di rivelare la presenza di un soggetto sul luogo del delitto. Con il loro lavoro, i ricercatori statunitensi hanno infatti rimesso sul tavolo un problema che per diversi anni è stato forse un po' sottovalutato: il trasferimento secondario di materiale genetico. Si tratta di quel fenomeno per cui è possibile rinvenire su un oggetto tracce del DNA di una persona, anche quando questa non è mai venuta in contatto con l'oggetto stesso. Come è possibile? Semplice, basta avere stretto la mano dell'assassino prima che questo compisse il delitto.
Il tema è stato oggetto di diversi studi in passato, ma nessuno di questi è riuscito a dare risposte definitive. Roland Van Oorschot e Maxwell Jones sono stati i primi a sollevare la questione con un articolo pubblicato su Nature nel 1997, in cui gli autori dimostravano che il trasferimento secondario di DNA è una possibilità concreta e invitavano a una maggiore prudenza nell'interpretazione dei risultati. Gli studi condotti in seguito, però, hanno dato risultati contraddittori, e nessuno ha potuto stabilire se il trasferimento secondario di DNA fosse sufficiente ad alterare l'interpretazione dei risultati di un test. Oggi i laboratori di genetica forense hanno a disposizione tecnologie con una sensibilità triplicata rispetto a quelle degli anni 90: basti pensare che con gli ultimi kit commerciali sono sufficienti appena 100 picogrammi di DNA per ottenere un profilo genetico. Sono buone notizie, ovviamente, ma tecniche così sensibili non possono che complicare ulteriormente il problema del DNA secondario. Studiare il fenomeno con le tecniche attualmente disponibili diventa quindi estremamente importante.
Grazie al lavoro di Cynthia Cale e dei colleghi dell'università di Indianapolis, oggi ne sappiamo qualcosa di più. Il disegno sperimentale predisposto dai ricercatori era molto semplice: dodici soggetti, dodici coltelli da cucina con impugnatura liscia, dodici con impugnatura ruvida. Dopo un'analisi genetica preliminare dei partecipanti, sono state formate delle coppie in modo che le due persone appaiate avessero un profilo genetico sufficientemente diverso da poter essere distinguibile. Quindi, ai membri di ogni coppia è stato chiesto di stringersi la mano vigorosamente per due minuti e di impugnare per altrettanti minuti il coltello che era stato loro assegnato. In questo modo, ogni partecipante contribuiva al profilo di DNA primario rilevato sul coltello che teneva in mano, e al profilo di DNA secondario del coltello toccato dall'altro membro della coppia. L'esperimento è stato eseguito in giorni separati per i coltelli a impugnatura liscia e a impugnatura ruvida, e infine sono stati analizzati i profili genetici individuati su quella che, nel contesto di una reale indagine, sarebbe l'arma del delitto.
I risultati sono stati sorprendenti. Dei 20 coltelli su cui è stato rilevato materiale genetico in quantità sufficiente, solamente 2 portavano tracce di DNA di un'unica origine. Su cinque coltelli è stata persino rilevata la presenza di DNA non appartenente a nessuno dei partecipanti né ad altri membri del laboratorio. Per questi cinque campioni, le misure adottate dai ricercatori non sono state evidentemente sufficienti a eliminare completamente il DNA già presente sulle mani dei partecipanti (o sui coltelli stessi) prima dell'esperimento. Tracce di DNA secondario sono state rilevate su 16 coltelli: in tre casi, la quantità di DNA secondario era sufficiente a confondere l'interpretazione del profilo genetico. La cosa più incredibile accadeva però con cinque coltelli dove il maggiore contributo era dato proprio dal DNA secondario. Se un simile profilo genetico fosse rilevato durante una vera indagine, verrebbe considerata colpevole una persona assolutamente innocente, non avendo neppure mai toccato l'arma del delitto.
Ovviamente questo studio non ridimensiona affatto l'importanza del test del DNA, che era e rimane uno strumento fondamentale per la ricerca della verità in ambito forense. I risultati impongono però maggiore cautela nell'interpretazione dell'esito del test, da parte di chi conduce le indagini certamente, ma soprattutto da parte dell'opinione pubblica. Se infatti gli addetti ai lavori hanno sempre saputo che l'analisi genetica è solo uno degli elementi in gioco, più difficile è accettarlo per chi segue le indagini dal salotto di casa, puntando il dito e scuotendo la testa sdegnato.