Prosciutto

Chissà se, nello scrivere il comunicato stampa in cui annunciava l’entrata delle carni rosse lavorate nella lista dei carcinogeni sicuri e delle carni rosse in quella dei carcinogeni probabili, lo IARC di Lione (l’agenzia che per conto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità valuta gli effetti delle sostanze sullo sviluppo dei tumori) si aspettava di sollevare un tale polverone.

In realtà gli studi che gli esperti hanno esaminato per scrivere la monografia sulla carne (ancora non disponibile nella sua interezza) sono noti da tempo (lo IARC ha fatto semplicemente un lavoro di revisione e metanalisi) e le raccomandazioni in materia di prevenzione oncologica già ne tengono conto. Basta dare un’occhiata al decalogo sulla prevenzione dei tumori pubblicato dal World Cancer Research Fund per trovare questa raccomandazione: “limitare il consumo di carni rosse (come manzo, maiale e agnello) ed evitare le carni lavorate. Obiettivi di salute pubblica: il consumo medio di carni rosse in una popolazione non dovrebbe superare i 300 grammi a settimana, di cui pochissimi (o meglio nessuno) di tipo lavorato. Raccomandazioni individuali: chi mangia carni rosse deve consumarne meno di 500 grammi a settimana, di cui pochissimi (o meglio nessuno) di tipo lavorato”. La prima versione di questo decalogo è addirittura di 15 anni fa, e già riportava l’indicazione (più generica di quella attuale) di limitare l’apporto di proteine animali.

A stretto rigore, quindi, non ci troviamo di fronte a una notizia inaspettata. Eppure la classificazione dello IARC ha un suo valore intrinseco che spiega, in parte, le reazioni talvolta scomposte della stampa ma anche quelle degli esperti. Le categorie IARC non indicano, infatti, il livello di rischio legato a un determinato composto, ma l’attendibilità delle affermazioni che gli scienziati fanno su di esso. In sostanza, la classificazione è una sorta di Trip Advisor della prova scientifica: se una sostanza si trova nella categoria 1, significa che le prove “a suo carico” sono consistenti. Se, come accade per le carni rosse fresche, sta nella categoria 2A, significa che ci sono prove del suo effetto negativo, ma meno solide (per via degli studi disponibili) di quelle che accusano invece gli insaccati. Per usare una metafora legale, sono come due imputati per un reato analogo verso i quali, però, ci sono prove di valore diverso: in un caso oggettive e inoppugnabili, in un altro indiziarie. Il “reato” che commettono, però, rimane lo stesso, e le sue conseguenze pure.

I titoli che accomunano la carne al fumo o all’asbesto sono quindi fuorvianti, perché usano la classificazione dello IARC per creare una gerarchia di rischio, quando in realtà si tratta di una gerarchia di prove. Il tabacco rimane, in numeri assoluti e per la relazione dose-effetto, molto più cancerogeno della carne. Lo ha ribadito Cancer Research UK, la più importante charity di finanziamento alla ricerca oncologica in Europa, con un articolo in cui stima che la carne rossa è responsabile del 21 per cento di tutti i cancri del colon che vengono diagnosticati in un anno in Gran Bretagna, e del 3 per cento di tutti i tumori, mentre il fumo è responsabile dell’86 per cento dei tumori polmonari e del 19 per cento di tutti tumori. In termini assoluti, se tutti i britannici smettessero di fumare eviterebbero la bellezza di 64.500 casi di cancro, mentre se rinunciassero tutti al roast-beef ne eviterebbero “solo” 8.800.

Doveva lo IARC evitare di sollevare questo polverone? Le opinioni in merito sono discordanti ma se vogliamo considerare i cittadini come esseri pensanti in grado (se correttamente informati) di prendere decisioni sulla propria salute, è importante fornire loro una misura dell’attendibilità delle affermazioni degli esperti. Nel caso di carni rosse e insaccati, però, c’è un altro elemento confondente: l’entità del rischio che si corre a livello individuale.

Paolo Vineis, epidemiologo italiano che lavora all’Imperial College di Londra che ha partecipato alla stesura del rapporto sulla carne rossa, ha infatti dichiarato alla radio: “Un consumo regolare di carne rossa (circa 50 grammi al giorno) aumenta il rischio di ammalarsi di cancro del colon, il tumore più direttamente collegato, del 18 per cento circa”. È poco o è tanto? Non è possibile rispondere, perché questa cifra è calcolata sul rischio relativo, cioè è una percentuale del rischio di ciascun individuo che, in termini assoluti, non è sempre equivalente. Una persona che, a parte una smodata propensione al consumo di salumi e bistecche, facesse una vita sana, non fumasse, consumasse tante fibre e facesse attività fisica, in assenza di una familiarità o di altra patologia che aumenta la probabilità di contrarre il cancro del colon, partirebbe da un rischio individuale, in termini assoluti, molto basso. Aumentarlo del 18 per cento non cambierebbe di molto il suo destino. Viceversa, una persona ad alto rischio per familiarità o perché affetta, per esempio, da una malattia infiammatoria dell’intestino, vedrebbe crescere il proprio rischio assoluto in una misura che può effettivamente fare la differenza. Fornire una indicazione quantitativa è quindi importante anche in questo caso, ma fornirla avulsa dal contesto può confondere quando si tratta di prendere una decisione sul piano personale.

Ecco perché l’epidemiologia, che ragiona sempre in termini di rischi relativi - dato che effettua i suoi studi su grandi popolazioni, stabilendo dei parametri medi su cui ragionare – è sempre difficile da tradurre in indicazioni individuali ma ha una sua utilità sul piano collettivo. Lo Stato potrebbe decidere di ridurre la quantità di carne servita nelle mense scolastiche come misura di prevenzione di popolazione mentre, sul piano personale, ciascuno deve decidere in base alle proprie caratteristiche, tra le quali si deve considerare anche la capacità di accettare l’incertezza e il rischio insiti in qualsiasi attività umana.

L’articolo originale prodotto dallo IARC e pubblicato in una anticipazione digitale da Lancet Oncology fornisce però anche alcune informazioni interessanti sui meccanismi che rendono la carne rossa carcinogena. Tra questi, la presenza di ferro EME, in grado, grazie al suo potere ossidante, di danneggiare il DNA, specie quando rimane a contatto per lungo tempo con la parete mucosa dell’intestino. Non solo: le ricerche più recenti hanno individuato in alcuni composti che si formano durante la decomposizione della carne nel tratto digestivo i promotori di cambiamenti negativi nella microflora intestinale. Lo studio del microbioma (cioè dei batteri che colonizzano il nostro intestino) sta diventando un ambito importante nella ricerca oncologica, poiché questi “ospiti” sembrano avere un ruolo essenziale nella nostra stessa sopravvivenza, aiutandoci a degradare e assorbire i nutrienti e proteggendoci dalle sostanze mutagene.

Negli insaccati e nelle carni lavorate si trovano invece i composti azotati (nitrati e nitriti) e gli idrocarburi policiclici aromatici. Si tratta anche in questo caso di sostanze che agiscono direttamente sul DNA mediante ossidazione, oppure interferiscono a livello epigenetico (cioè a livello dell’espressione e della regolazione dei geni) modificando i processi di metilazione, particolarmente importanti per la stabilità della cellula. Il documento dello IARC, quindi, fornisce un quadro completo dello stato dell’arte dell’epidemiologia molecolare applicata allo studio dei consumi di carne. È una grande innovazione rispetto al passato, in cui i dati epidemiologici erano solo osservazionali e le ragioni che portavano all’emergere di determinate malattie potevano solo essere ipotizzate. La conoscenza dei meccanismi biologici, invece, aiuta gli esperti a ridurre il margine di errore e a evitare i cosiddetti fattori confondenti, ovvero l’attribuzione di un effetto alla causa sbagliata. E dovrebbe, se ben spiegata, aiutare anche i consumatori a fare le proprie valutazioni in materia di alimentazione.