C’è stato un tempo in cui l'uso del pubblico impiego come leva elettorale ed elettoralistica era la normalità. Poi arrivò Mani Pulite, la fine della Prima Repubblica, la caduta del Muro e compagnia cantante. Da quel giorno, è successo quello che tutti si aspettavano: non è cambiato nulla.

 

di paolo

 

Roma - come potrebbe? - non è da meno. Segue da sempre i trend nazionali, anzi li anticipa. Vive nel suo peculiare e banale corporativismo, sistema di interessi di parte trainati, coordinati e gestiti dal Campidoglio e dall’Aula Giulio Cesare. L’aula del Consiglio comunale, dove siedono i consiglieri eletti con le preferenze, è uno dei punti nevralgici di smistamento del potere. Una azione coordinata con l’apparato burocratico e con il Sindaco di turno. Non solo assunzioni, ma tanti, innumerevoli altri “favori”. E una azione di governo completamente succube, asservita, soggetta a qualsiasi raffreddore (metaforicamente e non solo) dei vari stakeholder (portatori di interesse). Cioè, per dirla meglio, non soggetta e diretta al benessere del vero stakeholder (il cittadino elettore) ma a quello dello stakeholder bicefalo: il dipendente, il tassista, il commerciante che vota e fa votare, è dunque mezzo dipendente e mezzo votante e dunque non può essere scontentato.

Il punto centrale è che a Roma il potere elettorale delle corporazioni dipendenti dal settore pubblico è numericamente enorme. Non è solo il Comune, ma anche le municipalizzate e tutti quei settori dell’economia dipendenti da decisioni dell’amministrazione. Questo numero di persone fa anche opinione fuori dal bacino diretto (oltre le famiglie, per capirci). Un tempo si misurava la forza dei vari bacini, Poste o Ferrovie ad esempio, con valori numerici per rappresentare la quantità di voti che ognuno poteva generare. Non so come si possano classificare le municipalizzate romane, i tassisti, i commercianti ambulanti oggi. Ma il numero di persone che ruota intorno al potere decisorio di Virginia Raggi, come di tanti altri prima, è decisamente rilevante.

Andiamo per ordine: Roma gestisce più di due decine di aziende municipalizzate o di proprietà del comune, AMA e ATAC sono le principali, rispettivamente 8.000 e 12.000 dipendenti. Tutti, in prima approssimazione, attivi nel territorio comunale e, dunque, anche residenti. ACEA, che opera anche fuori dal territorio, è la più grande, è quotata (dunque tecnicamente non è una municipalizzata ma è pur sempre a maggioranza comunale), ha circa 5.000 dipendenti. Siamo a circa il 75% del totale, 32.000. Ci sono varie altre aziende importanti, da EUR Spa che controlla il patrimonio comunale nel quartiere, alle farmacie e alle assicurazioni. Un coacervo di interessi enorme, un bacino di persone ingestibile. Poi ci sono circa 25.000 dipendenti diretti del comune, di cui 6.000 vigili. I tassisti sono circa 7.700. Poi ci sono i commercianti ambulanti (quelli del No-Bolkenstein e dei bandi indirizzati dalla famiglia Tredicine). Un groviglio inestricabile. Se è vero che si fa a fatica a scontentare tutta questa gente se si vogliono vincere le elezioni, è vero anche che Roma così muore.

La risposta alla domanda "come venirne fuori?" merita, però, un'ulteriore analisi della dinamica degli ultimi anni. Recentemente la giunta Raggi, chiedendo ulteriori trasferimenti al Comune di Roma, ha pubblicato un dossier riguardante i dipendenti del comune. Si cercava di dimostrare che mediamente, rispetto alle altre città italiane, Roma ha meno dipendenti. I dati sembrano confermarlo. Ci sarebbe da dire che Roma, di gran lunga la più grande delle città italiane, dovrà pur beneficiare di un effetto scala che le permetta di fare qualcosa in più con qualche persona in meno. E, dall’altra, bisognerebbe analizzare il perimetro del Comune rispetto alle sue municipalizzate. Ma tralasciamolo, questo discorso. Anche perché, parliamoci chiaro, non si potrà certo evitare che i comuni italiani continuino ad avere dipendenti. Il problema da affrontare sono i perimetri esterni in mano al comune. Le municipalizzate, in primis.

Il "fondo di verità" sui dipendenti comunali è lo stesso per tutta la PA italiana, talmente spropositata e inefficiente nel tempo da essere stata decimata da un blocco del turn over che ne ha reso paradossalmente, ora, costante l’inefficienza ma con meno dipendenti diretti. Il trucco, dunque, è stato spostare gli interessi e le magagne fuori dalla Pubblica Amministrazione strettamente intesa.

Dunque, la camera di espansione della politica nell’amministrazione locale sono state le municipalizzate. Si, certo, per vincoli di bilancio imposti dall’alto. Ma non solo. A Roma i cambi di fronte (Alemanno prima, la Raggi poi) e le discontinuità nei gangli del potere politico hanno acuito il problema. Quando il sistema rutellian-veltroniano è venuto meno, quella pax romana tra interessi e amministrazione decente ma tentacolare è stata sconvolta. Si racconta che molti alemanniani entrarono, il giorno dopo la vittoria, in alcuni municipi al grido di “È finita la ricreazione”. La macchina comunale era totalmente allineata alla precedente maggioranza e l’inesperienza dei nuovi arrivati determinò una difficoltà reale di andare a fondo nella “cattura” dei punti nevralgici. Nella gestione di quel potere in maniera attiva, nella possibilità di creare nuovi bacini. Tant’è che Alemanno cadde in una spirale di assunzioni a go-go in Atac, oltre 2.000, segnate dal metodo “amici e amici degli amici”, come accertato da varie indagini. E non solo i dipendenti, ma anche tantissimi dirigenti d’area scalarono le posizioni, sempre nelle municipalizzate.

La giunta Raggi ripropone il tema: se assumere non si può, se i Marra messi da altri all’interno della macchina comunale non li si può eliminare, nelle municipalizzate si può fare di tutto. Lottizzazione totale, ancora una volta. Coccole, al posto delle assunzioni. Ma la ricerca ossessiva del potere fine a se stesso in quanto ausilio determinante alla sua stessa perpetuazione.

Girandola di nomine, cambi su cambi al vertice (perché anche lottizzare è un problema se non hai esperienza), promesse di razionalizzazione del numero delle partecipate mancate, risparmi mai ottenuti. Incidentalmente, il governo nazionale ha anche espunto una parte della legge Madia che razionalizzava le partecipate degli enti locali. Solita roba, inutile scandalizzarci. Il problema Roma è peculiare nella sua estensione, in primis numericamente. In secundis, per l’incredibile numero di vantaggi che dipendenti delle municipalizzate - così come altre categorie protette - hanno. Facilissimo, dunque, scontentarli. È evidente che auspicare una politica in grado di sanzionare comportamenti scorretti e risolvere sprechi e inefficienze, in questo stato di cose, è illusorio.

La risposta, inutile dirlo, è sempre la stessa: togliere le mani pubbliche dal coinvolgimento diretto.