L'Europa e la guerra. Guardando alla Libia, pensando a Srebrenica
Istituzioni ed economia
Dopo il 1945 e fino alla caduta del Muro di Berlino, la guerra non poteva essere, per convenzione e necessità, una questione europea. Il continente era attraversato da un confine strategico reale, la Cortina di ferro, che ne soverchiava i confini storici e formali e ne organizzava la sicurezza secondo gli interessi dei vincitori di Yalta.
La profezia europeista nacque così, da questa parte del Muro, in un'Europa tutt'altro che pacificata o immune dai rischi militari e nucleari della Guerra Fredda, ma anche al riparo di quell'ombrello della Nato che rappresentava il presidio della libertà e dell'innocenza dell'Europa a sovranità limitata, e la paradossale garanzia della sua vocazione pacifista.
La caduta del Muro, oltre al progressivo spostamento dell'asse degli equilibri geo-economici mondiali dall'Atlantico al Pacifico, ha rimesso in mano all'Europa un problema che l'Europa unita non aveva mai imparato a maneggiare e aveva costituzionalmente ripudiato, ma non superato. Da allora, ogni volta che, a partire dalla dissoluzione dell'ex Jugoslavia, la questione della guerra lambisce i confini dell'Unione, la scopre non solo riluttante, ma impreparata. Si passa così dall'Europa di Auschwitz a quella di Srebrenica, dalla pulizia etnica compiuta a quella consentita, dalla vergogna della guerra a quella della pace.
In un ordine mondiale il cui disordine segna la sanguinosa rivincita della forza politico-militare su quella economica e riallinea i rapporti di potere secondo criteri molto tradizionali (quante armate ha il Papa, quante armate ha l'Europa?), i paesi europei si sentono spiazzati e si scoprono divisi e incapaci perfino di pensare alla guerra minacciata o dichiarata contro di loro come un problema comune. Questa irresolutezza non diventa solo umiliante, ma rischiosa quanto più gli Stati Uniti traccheggiano, riluttanti a invischiarsi in problemi avvertiti – a torto o a ragione – lontani dal centro dei loro interessi strategici.
In questo quadro, l'invocazione dell'impegno della comunità internazionale, come usa dire, "sotto l'egida dell'Onu", non è il richiamo a una condizione di legittimità formale per l'azione militare, ma né più né meno che la richiesta di un intervento esterno, da parte di chi sappia politicamente esercitare "il mestiere delle armi" e voglia prendersi la responsabilità e il peso della dichiarazione di guerra.
In scenari di crisi politico-militare particolarmente vicini ai confini e agli interessi europei (la Libia, ma anche in modo diverso l'Ucraina), quando l'Onu non possa intervenire e gli Stati Uniti non vogliano, l'Europa può solo fare ammuina diplomatica, cioè niente di significativo. E quando il cappello dell'Onu serva solo di fatto a giustificare il disimpegno militare europeo finisce appunto come finì nell'ex Jugoslavia, fino all'intervento della Nato.
Nell'Europa di oggi non esiste un pensiero che sia in grado di legare i principi di diritto, di giustizia e di democrazia a una strategia politico-militare coerente con gli ideali di unità e coesione europea. Non esiste neppure un pensiero che sia il grado di legare i "valori" e le "armi" secondo una logica di non contraddizione. Per la prima volta l'Italia rischia di essere non solo partecipe, ma vittima di questa sindrome pacifista.
Se ne erano avvertiti i primi segnali su Mare Nostrum, che era una risposta umanitaria al problema dell'esplosione politica dell'Africa mediterranea e dell'uso deliberatamente bellico delle "bombe umane" lasciate alla deriva nel Mediterraneo. Rischiamo di averne una conferma drammatica di fronte al pericolo di divenire, per ragioni storiche, geografiche e religiose, il bersaglio privilegiato della violenza islamista.
D'altra parte sulla Libia il silenzio europeo, ad eccezione di quello francese, mosso però da interessi economici concorrenti, è solo l'altra faccia della medaglia della querula superbia dei nostri connazionali– ex premier, generali, analisti-realisti e compagnia cantando – che spiegano che non si può fare nulla, non si deve fare nulla, e lasciare che laggiù si sbrighino la faccenda tra di loro, senza pensare che "loro" hanno una faccenda – e che faccenda – aperta anche con noi italiani ed europei, che vogliamo la pace solo nel senso che vorremmo starcene in pace, ma non possiamo più.
Inoltre, a forza di illuderci che la soluzione possa essere un cordone sanitario difensivo, che lasci la Libia alle sue convulsioni tribali, mentre noi tiriamo su il ponte levatoio del Mediterraneo, non capiamo neppure più quanto ci somiglino i cristiani copti decapitati sulla spiaggia di Sirte e gli ebrei ammazzati a Parigi e Copenhagen e quanto tutti appartengano al nostro comune destino.