L'Italia in Libia: un intervento militare senza iniziativa politica?
Istituzioni ed economia
La situazione in Libia è molto seria. Tutti sembrano concordare su questo, ma su questo soltanto. Le soluzioni, la possibilità e l'opportunità di un intervento, le sue eventuali modalità, la copertura giuridica e politica, l'entità e la durata dell'impegno, la ripartizione degli oneri e dei ruoli, tutto è oggetto di una disputa tra un numero non ben definito di soggetti, sia locali che regionali e internazionali, ciascuno guidato dai propri interessi e dalla propria “agenda”. L'Italia si trova in una posizione tra le più difficili. Vediamone i punti di debolezza.
I governi italiani, a cominciare dal governo Berlusconi, hanno subito l'iniziativa franco-britannica che ha rovesciato Gheddafi ma che non è riuscita a sostituirlo con un altro “equilibratore” della galassia di tribù che va sotto il nome convenzionale di Libia. Dopo l'inizio dell'insurrezione, l'intervento occidentale contro l'esercito libico e a protezione degli “insorti democratici” ha prodotto il collasso del poco di Stato che c'era e il ritorno al governo tribale del paese. L'Italia, fra l'altro, ha partecipato a quelle operazioni in violazione del trattato di amicizia con la Libia che Berlusconi aveva appena firmato, compromettendo seriamente il valore della adesione italiana a un trattato internazionale. L'incapacità del governo di centro-destra di elaborare una linea politica in quella delicata fase ha poi impedito un ruolo successivo.
Poi, gli occidentali si sono chiamati fuori e hanno sperato che il problema si risolvesse da solo, in qualche modo. Si è invece dimostrato che l'entropia si applica anche alla politica: se chiudi un imprecisato numero di leader tribali in una stanza, è più facile che, quando riaprirai la porta, ti troverai di fronte una guerra civile senza sbocchi, piuttosto che un coscienzioso governo di unità nazionale. Anche in questo caso i governi italiani di Monti, Letta e Renzi sono rimasti a guardare.
Quando l'ONU ha inviato un suo mediatore, non si è preoccupata di verificare che non fosse a libro paga del Qatar, e in modo anche particolarmente impudico, quindi anche la credibilità delle Nazioni Unite, quella residua, non è più una risorsa per trovare una soluzione, ma è divenuta fonte di comprensibile diffidenza e di fondato sospetto. Il governo italiano vede così indebolito quel ruolo delle Nazioni Unite che abbiamo sempre invocato sia per prendere tempo che per contenere le ambizioni dei fratellastri europei. L'Italia è stata gratificata, come si usa in questi casi, con una poltrona, quella del consigliere militare del negoziatore dell'ONU. Ma l'incarico è un dono insidioso, perché lega il ruolo italiano più alla dimensione militare che a quella politico-diplomatica, adesso attribuita a un tedesco. Anche nell'ultima fase, dunque, il governo italiano ha subito l'iniziativa altrui, forse anche perché un negoziatore italiano prestigioso avrebbe dovuto avere una certa caratura politica o tecnico-diplomatica, e i candidati con queste caratteristiche sono, in Italia, sconsolantemente pochi e nessuno nelle grazie del premier Renzi.
La mancanza d'iniziativa e di spazio di manovra dell'Italia è la vera questione centrale. Negli ultimi trent'anni gli strumenti a disposizione del governo si sono “degradati di qualità” e ridotti di numero. La diplomazia italiana è in profonda crisi, come indirettamente dimostra la vicenda della sostituzione dell'ambasciatore presso l'Unione Europea: il problema non è la designazione di un politico come Calenda, ammesso che egli sia un politico, ma la scarsissima sintonia tra corpo diplomatico e governo, e l'incapacità del primo di farsi ascoltare dal secondo. Quali che siano le colpe, questa condizione di marginalità dei diplomatici di professione italiani è un'oggettiva condizione di vulnerabilità sul piano dei rapporti internazionali del paese e ne diminuisce l'utilità.
Le Forze Armate sono pronte a qualsiasi eventualità: questa è la formula di rito che ogni generale attento alla propria carriera ripete accigliato. I generali che una carriera non ce l'hanno più, invece, perché sono in pensione, sono assai più espliciti nel ricordare come anni di disinvestimento militare finiscano oggi col farsi sentire. L'Esercito ha circa centomila uomini, una quota rilevante dei quali è costituita da amministrativi in uniforme che nessuno stato maggiore coscienzioso penserebbe mai di impiegare in combattimento in un teatro di operazioni turbolento come quello libico. La Marina ha una magnifica portaerei praticamente nuova di cantiere, che sarà pienamente operativa tra alcuni anni. Per le operazioni contro Gheddafi, infatti, si è impiegato il vecchio “incrociatore portaelicotteri” Garibaldi.
L'Aeronautica è in fase di transizione verso una linea di volo più moderna, quella degli F-35, che resta però ancora una prospettiva non priva di serie incognite. Intendiamoci, ognuna delle tre Armi è in grado di svolgere la propria missione in Libia, se questa sarà molto limitata come impegno di combattimento, ma lo strumento militare italiano continua a languire in un contesto di incertezza, in cui l'Italia non ha mai discusso seriamente che tipo di Forze Armate vuole costruire, per quale tipo di impiego, e con quale serio e sostanzioso investimento finanziario: mentre noi spendiamo circa 33 miliardi di dollari all'anno per la difesa, la Francia ne spende 58 e il Regno Unito 63, mentre la Germania appena 48, una quota risibile della propria ricchezza, ma proprio per questo Berlino si affida maggiormente alla diplomazia economica e politica, che non a quella militare, ed evita di mandare soldati ad ogni latitudine. Fra l'altro, i nostri soldati si stanno pericolosamente abituando a svolgere funzioni di guarnigione, mentre americani e inglesi, e in misura minore francesi, si incaricano di combattere. Non c'è un solo generale italiano che abbia comandato più di 600 uomini in combattimento, nello specifico nella battaglia dei ponti a Nassiria.
Infine, il contesto internazionale non ci è favorevole. L'Italia gioca, in Libia più che in altri contesti, una partita nella quale i rapporti politici che Roma ha saputo costruire in passato non sono più così solidi come, pur nella travagliata storia dei governi della Prima Repubblica, usavano essere e di certo sono molto meno vantaggiosi. Dall'inizio del secolo i governi italiani hanno dato prova di sempre minore capacità di gestione politica del ruolo che l'Italia pure possiede, per posizione geografica, peso economico e collocazione di alleanze. La perdita di credibilità ha subito un'improvvida accelerazione con il governo Berlusconi del 2008-2011, senza molti dubbi il peggiore della recente storia repubblicana. In precedenza l'Italia è sempre stata abbastanza amica di tutti da fare affari con chiunque senza irritare troppo gli altri partner, ma mai così amica da ribaltare la priorità delle alleanze: prima quella con Washington, poi quella con Bruxelles (NATO e UE), a seguire le altre.
La personalizzazione della diplomazia ha portato a grandi equivoci. Berlusconi era amico personale di Bush, ma non di Obama. Così ha fatto virare la politica estera italiana verso la Russia del suo partner d'affari Vladimir Putin, ritenendo di poter sostituire impunemente le sue simpatie e convenienze personali a settant'anni di rapporti politici tra Roma e Washington. Grave errore. Allo stesso modo ha impostato la politica verso Israele in termini fin troppo amichevoli, ben oltre quanto utile sia a Roma che a Tel Aviv. Agli israeliani non interessa l'appoggio politico dell'Italia, che non è neppure membro permanente del Consiglio di Sicurezza dell'ONU, bensì un accesso discreto e garantito alla rete di comunicazione del Medio Oriente che attraverso l'Italia si collega alle altre reti planetarie.
L'equivoco prosegue oggi col governo Renzi, che non è riuscito a ristabilire un rapporto di fiducia con gli Stati Uniti, né creando un rapporto personale e diretto, non usando con profitto gli ambasciatori. Gli americani ci percepiscono come un paese sempre più fragile, incapace di riformarsi seriamente, e sempre più governato da leader di nuovo conio, ondivaghi e incostanti nelle loro posizioni, troppo platealmente opportunisti e poco inclini a comprendere il valore e il senso politico dei rapporti che pre-esistevano alla loro ascesa al potere. Di qui la passione americana per il venerando ex presidente della Repubblica, un uomo del secolo scorso, che ha tessuto importanti relazioni negli Stati Uniti proprio nel secolo scorso: un investimento da parte americana che ha offerto le poche serie garanzie politiche che l'Italia è stata capace di mettere sul tavolo in modo credibile in questi ultimi dieci anni. Il fatto che gli Stati Uniti si debbano affidare prevalentemente ad un ultranovantenne per avere il polso e capire – e, forse, correggere – la direzione di un paese che è sempre stato molto importante per la proiezione di potenza americana nel Mediterraneo e nel Medio Oriente è un aspetto che rivela quanto deteriorata sia la situazione politica italiana e quanto leggera sia stata la “gestione” americana delle vicende italiane.
Dall'altro lato, questa stessa circostanza dobrebbe suscitare qualche preoccupato interrogativo in Italia: davvero non siamo capaci di avere figure politiche contemporanee che sappiano parlare con gli americani, meglio se in un inglese accettabile, e comprendere il loro punto di vista? Questa comprensione è il pre-requisito di un dialogo politico in cui non c'è una parte che comanda e un'altra che obbedisce, ma in cui due vecchi partner ritrovano le ragioni – fondate sui reciproci, compatibilissimi e rilevantissimi interessi – per fidarsi l'uno dell'altro e risolvere per via politico-diplomatica molti problemi che gli USA hanno cercato di risolvere, invano, per via militare, fino a perdere fiducia nella loro stessa capacità di ottenere una vittoria politica sul campo di battaglia.
Mancando la capacità di comunicare in modo politicamente sostanzioso – cioè al di là delle solite visite di stato – viene a mancare il rapporto di fiducia, quel rapporto che ci consentirebbe, oggi, di avere gli americani schierati al nostro fianco per trovare una soluzione politica alla crisi libica, ed essere così parte di quella soluzione, anziché parte del problema. Gli americani non si fidano abbastanza di noi per prestarci il loro peso politico allo scopo controbilanciare le iniziative francesi e, in misura minore, inglesi, e per allineare Egitto, Algeria, Tunisia e Marocco con un'iniziativa dell'ONU ricalibrata su una proposta italiana per la pacificazione della Libia, che oggi non c'è.
Proporsi di guidare un processo di pace così complesso senza una strategia è un'ulteriore dimostrazione di scarsa serietà di fronte ad alleati ed avversari. Una proposta seria deve escludere la partizione del paese, che costituirebbe un messaggio politicamente inaccettabile: se ogni stato dell'ex-socialismo arabo ormai collassato deve essere frazionato per essere pacificato, ci ritroveremo presto con dozzine di staterelli incapaci di sostenersi e facile preda di vicini un po' più organizzati. Allo stesso modo si deve evitare un massiccio intervento di truppe europee, che potrebbe manifestarsi come un'escalation: si parte da interventi mirati con intelligence e truppe speciali, poi si aggiungono i “consiglieri militari”, dunque dei contingenti di protezione degli stessi, poi si stabilisce una base logistica per i contingenti e un aeroporto, che vanno a loro volta protetti e così si arriva a incrementare sempre più l'impegno militare, che diviene un ostacolo alla soluzione politica, anziché agevolarla.
Invece, è indispensabile chiudere i confini libici alle infiltrazioni di foreign fighters e all'afflusso di armi (e migranti), inclusi i confini meridionali con Chad, Niger e Sudan: questo è un punto di importanza strategica, sia sul piano militare che su quello politico-diplomatico: cessando l'afflusso di armi e combattenti, si cristallizzano i rapporti di forza, e nessuno ha più grande convenienza a prendere tempo; inoltre, si responsabilizzano i paesi arabi confinanti con la Libia, che dovranno assumersi la responsabilità politica per tutto ciò che fanno passare dai loro confini a sostegno delle fazioni che scelgono di sponsorizzare. Disconoscere il ruolo dei paesi confinanti, del resto, non aiuterebbe il processo di pace e creerebbe una fictio politica: cioè che essi non abbiano ruolo e interesse nel futuro della Libia.
Dall'altro lato è indispensabile continuare fino all'esaustione del corpo e dell'intelletto dei negoziatori il processo diplomatico per la costruzione di un governo unitario: anche se la soluzione dovesse apparire lontana, il negoziato dovrebbe continuare comunque, perché più tempo le fazioni spendono a parlare, meno tempo spendono a combattere, soprattutto se le loro posizioni sul campo non migliorano; se viceversa dovessero vedere che gli europei e gli americani danno per fallito il negoziato diplomatico, ciascuno si preparerebbe ad ottenere sul campo di battaglia ciò che non potrebbe più sperare di ottenere al tavolo negoziale.
È anche necessario circoscrivere ed eliminare i combattenti di Daesh, anche per disincentivare l'adesione di altre tribù al gruppo terrorista: a farlo, però, devono essere soprattutto i gruppi armati libici, che potrebbero essere compensati con i territori delle tribù che hanno aderito al Califfato nero. L'avidità è sempre una qualità sulla quale investire. Si deve poi rassicurare l'Egitto sul fatto che la Libia non sarà governata in modo prevalemnte dai Fratelli Musulmani in versione locale (Alba Libica), e fare piuttosto del Cairo un attore cruciale del processo di stabilizzazione, insieme all'Algeria.
È infine cruciale preservare la stabilità politica ed economica della Tunisia, il cui collasso sarebbe un dono propagandistico immenso agli islamisti e una testimonianza dell'incapacità occidentale di esercitare il potere. Nessuno dei popoli della sponda sud del Mediterraneo ha mai apprezzato la dimostrazioni di impotenza. L'Italia dovrebbe essere innanzitutto il punto di raccordo politico e diplomatico, con un ruolo militare limitato alla “quarantena navale” (un blocco navale chiamato con altro nome, per evitare di commettere esplicitamente un atto di guerra) e aerea delle coste libiche. In questo modo, entro un periodo di 5-8 anni la Libia potrebbe essere pacificata.
Un piano del genere, però, richiede soprattutto quelle capacità politiche e diplomatiche di cui l'Italia si è dimostrata malamente sprovvista e che le consentirebbero di assumere l'iniziativa nella soluzione della crisi libica, anziché dover scegliere a chi accodarsi. Se le strade percorse dovessero essere altre, come tutto sembra indicare, dovremo prepararci a sostenere ancora una volta i costi degli errori altrui, agevolati dalla complicità della nostra insipienza politica.