Sia il giubilo che lo scandalo per l'approvazione dell'Italicum 2.0 andrebbero, come minimo, ridimensionati e proporzionati al contenuto di una legge che ristabilisce una discutibile, ma riconoscibile coerenza tra il sistema elettorale nazionale e quelli locali e "maggioritarizza" un proporzionale che la sentenza della Consulta aveva riportato, in nome della Costituzione, alla sua forma originaria e primo-repubblicana.

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Ora il modello del cosiddetto "Sindaco d'Italia" di cui, da Mario Segni a Matteo Renzi, molti disinvolti divulgatori del verbo maggioritario hanno in questi anni parlato come di un modello per la Repubblica è di fatto diventato legge (manca un passaggio alla Camera, che pare verrà completato senza intralci).

L'Italia si lascia definitivamente alle spalle l'illusione o la speranza, a seconda dei punti di vista, di ancorarsi a un modello classico di democrazia competitiva, come quello uninominale-maggioritario, e scongiura il rischio di tornare al voto con un sistema elettorale (il cosiddetto Consultellum) di fatto identico a quello che gli italiani avevano plebiscitariamente rottamato nel 1993.

Se c'è una logica – non solo tattica, non solo egoistica e non solo retorica – che Renzi può onestamente rivendicare è di avere salvaguardato un principio a cui gli italiani rimangono molto affezionati, quello di decidere direttamente chi deve governare e chi stare all'opposizione. Ma è un principio che, come l'esperienza dimostra, non garantisce assolutamente nulla quanto agli esiti dell'azione di governo.

Rispetto alla legge elettorale comunale e regionale, l'Italicum ha però due evidenti anomalie.
La prima è quella di introdurre un'elezione diretta surrettizia del premier, per scansare il problema, rimosso anche dalla riforma costituzionale, di mettere mano ai poteri del Capo dello Stato e al suo ruolo cosiddetto di garanzia, che la Carta non impedisce affatto di estendere fino a configurare una sorta di consolato di governo tra Quirinale e Palazzo Chigi.

La seconda è di personalizzare in modo ancora più marcato il confronto politico, rendendo il ballottaggio bipartitico e non bipolare, per ragioni che non dipendono da analisi di economia istituzionale, ma dal progetto di fare del PD un country-party onnicomprensivo, il partito della Nazione piglia-tutto che nella storia italiana solo la DC, in un contesto del tutto diverso, era stata capace di diventare.

L'aggiustamento dell'Italicum rispetto alla versione approvata alla Camera comporta anche l'introduzione del voto di preferenza, per gli eletti diversi dal capolista. Come è noto, questa norma sostanzialmente avrà effetto solo per il partito che prenderà il premio di maggioranza e dunque oggi per il PD, ma è stato il necessario tributo che la maggioranza ha dovuto rendere alla retorica della dissidenza democratica contro i cosiddetti nominati e all'oblio degli italiani sulla natura criminogena di un meccanismo di scelta particolaristico, sconosciuto in tutte le grandi democrazie europee e destinato inevitabilmente a sconfinare nel voto di scambio, legale e illegale.

Per il resto, la riduzione e semplificazione della giungla di sbarramenti elettorali, che nella prima versione erano diversi per le liste coalizzate e per quelle singole (rispettivamente 4,5% e 8%) e in ogni caso più alti del 3% alla fine stabilito, non sacrifica il diritto di rappresentanza al diritto di governo e apre ragionevolmente la strada della Camera alle forze politiche capaci di superare (più o meno) il milione di voti.

Come spesso è accaduto in questi anni di repentini e ripetuti mutamenti della legge elettorale è legittimo domandarsi se questa ennesima "svolta" possa servire a modernizzare il sistema politico e a rendere più efficiente il sistema istituzionale. La risposta, onestamente, è no.

La ragione della sfiducia non dipende però dai difetti della legge elettorale – l'Italicum non è mostruoso, e non lo era neppure il cosiddetto Porcellum – ma dall'impossibilità di surrogare dall'esterno, con meccanismi giuridicamente costrittivi, processi politici che dipendono in larga misura dalla qualità dei partiti e della classe politica e dalla solidità della loro cultura di governo.

Dopo anni in cui abbiamo compulsivamente cambiato il sistema elettorale alla ricerca della pietra filosofale della buona politica o del segreto della "stabilità", dovremmo avere imparato che le leggi istituiscono un insieme di incentivi e disincentivi, ma non determinano, come una causa per un effetto, il risultato del gioco democratico.

La Germania, per fare un esempio, ha preso il volo con un sistema elettorale che ha costretto la Merkel, per ben due volte, a condividere la responsabilità di governo con gli avversari dell'SPD, e che in Italia avrebbe trascinato le istituzioni in una sorta di anarchia consociativa, come avvenne tra gli anni '70 e '80 con i governi di unità nazionale.

Veniamo da anni in cui, prima con il Mattarellum, poi con il Porcellum, non è mai esistito, a parte i quasi pareggi del 2006 e 2013, un problema di legittimazione del potere di governo, ma si è sempre riproposto il problema della sua unità e adeguatezza al fine. Abbiamo visto coalizioni e partiti supermaggioritari – l'Ulivo prodiano nel 1996, la Casa delle Libertà nel 2001, il PdL nel 2008... – disfarsi dall'interno e crollare in pochi anni sotto il peso delle loro stesse contraddizioni, non per un "baco" del sistema elettorale.

Anche se l'Italicum fosse approvato definitivamente, alla riforma costituzionale (e dunque al superamento del Senato elettivo, da eleggersi col proporzionale puro, grazie alla sentenza della Consulta) mancherebbe almeno un anno di iter per giungere all'effettivo completamento. Siamo ancora abbastanza lontani dal momento in cui Renzi potrà andare al voto senza rischiare di fare del patto del Nazareno – cioè dell'accordo PD-Berlusconi – l'unico vero asse di una coalizione di governo.

In seguito, anche dando per scontato che il processo di riforma si completi, così come Renzi lo ha immaginato, la stabilità dell'intero sistema dipenderebbe quasi per intero, almeno nel primo periodo, dalla stabilità del PD. E basta vedere dove si annidava ieri l'opposizione più tenace e ideologicamente ostile al progetto renziano per capire che l'Italicum, in sé, non potrà essere, da nessun punto di vista, una panacea.