Il discorso risentito e recriminatorio con cui Giorgia Meloni oggi in Parlamento ha riferito sulle prospettive del Consiglio europeo dei prossimi 27 e 28 giugno è stato un pezzo da manuale della retorica sovranista.

È stato un j’accuse contro gli errori dell’Europa di ieri, di oggi e pure di domani – vista la continuità di governo del blocco popolare-liberale-socialista – e una interpretazione cospiratoria delle ragioni storiche, economiche e, in primo luogo, demografiche che hanno rapidamente portato negli scorsi decenni a una contrazione del peso specifico europeo nello scenario globale.

A un certo punto è sembrato possibile che la Presidente del Consiglio evocasse pure qualche teoria della “sostituzione economica” o della “sostituzione politica”, adattandovi lo schema di quel progetto “di sostituzione etnica”, che Meloni, fratelli e cognati d’Italia hanno presentato per anni come un complotto mondiale contro le nazioni europee bianche, dopo averlo ripescato nelle fogne della propaganda neonazista contemporanea.

Visto che in Italia – non solo a destra – rimane popolare derivare le responsabilità europee dai mali italiani, invertendo le cause con gli effetti – molte delle tensioni e delle difficoltà europee derivano dalle responsabilità italiane e dalla difficoltà di riallineare un grande Paese fondatore alle tendenze storiche positive della generalità dei Paesi Ue – Meloni è tornata a battere sullo stesso tasto vittimistico, che galvanizza da anni gli elettori e fa credere loro che le cause endogene dei deterioratissimi fondamentali economico-sociali dell’Italia (per non dire di quelli civili) siano in realtà esogene e vadano ricondotte alla burocrazia e ideologia bruxellese.

La promessa (agli italiani) e la minaccia (ai vertici dell’Ue) è sempre la stessa ed è sempre più grottesca: un gigantesco “me ne frego” verso le regole e le politiche europee pronunciato da un Paese che, se fosse davvero lasciato a se stesso, ai propri caratteristici vizi e alle proprie presunte virtù andrebbe letteralmente alla deriva nel Mediterraneo. Non tornerebbe a essere una Germania un po’ più piccola, ma diventerebbe una Cipro un po’ più grossa.

C’è da mettere in conto che Meloni abbia fatto la voce grossa per strappare nel negoziato del prossimo Consiglio un accordo su un commissario di peso e vicepresidente della Commissione, che però dividerebbe in Italia la sua compagine di governo e la metterebbe in difficoltà con altri membri del gruppo ECR.

Ma se pure si trattasse di un esercizio di doppiezza del post-fascismo di lotta e di governo aggraverebbe in ogni caso i problemi italiani, che originano tutti dalla dissociazione patologica della rappresentazione dalla realtà e dall’alienazione morale e cognitiva di un elettorato aggrappato all’illusione, sempre più disperata, che con meno Europa staremmo tutti meglio.

Meloni nel suo intervento ha sostenuto che visto che tutti chiedono di cambiare qualcosa, allora la sua diagnosi è esatta. È vero esattamente il contrario. La sua è una delle due diagnosi alternative dei mali europei ed è quella sbagliata (posto che non è neppure una diagnosi, ma un plot propagandistico).

Per affrontare sfide crescenti e sempre più complesse, è necessario realizzare livelli crescenti di integrazione politica-economica, che portino alla costruzione di una vera sovranità europea. Altro che Europa "confederale".

I cambiamenti richiesti da Draghi, anche sul tema della governance economica dell’Unione, sono il contrario di quelli chiesti da Meloni. Una cosa è fare debito comune per finanziare la modernizzazione in senso competitivo dell’economia europea, cosa opposta è chiedere di finanziare a spese del contribuente europeo i disavanzi nazionali e il principio del “libero deficit in libero stato”.

L’Europa dei sogni di Meloni – l’Europa al contrario, si potrebbe dire parafrasando Vannacci – non potrebbe mai esistere e se provasse a realizzarsi sarebbe la fine dell’Ue.