Matteotti grande

Nell’anno del centenario dal tragico assassinio di Giacomo Matteotti, il mercato editoriale offre un’ampia varietà di nuovi volumi dedicate al grandissimo oppositore del fascismo. Ne ho contati, sinora, almeno 24, per gli amanti della cabbala.

Tra questi si legge di un fiato il bel volume scritto da Antonio FunicielloTempesta. La vita (e non la morte) di Giacomo Matteotti,  Rizzoli, 2024 – a cui va riconosciuto un merito, tra i molti: quello di voler ricordare Matteotti per quello che ha realizzato e significato durante la sua pur breve vita. Lasciandone intenzionalmente da parte la riduzione ad un santino, ad una effige da innalzare sui labari di quelle sorti di processioni laiche cui sono state ridotte le celebrazioni della resistenza al fascismo.

L’immagine da reliquia è un torto nei confronti di quello che Matteotti fu da vivo: con la sua profonda fede laica nel socialismo riformista e democratico, teso sempre nella ricerca della collaborazione con i partiti che al tempo di definivano borghesi. In linea con la tradizione del socialismo di Turati, quello che il 1° agosto 1899, dalle colonne della Critica Sociale, tendeva la mano “all’uomo dell’altra riva”, Giovanni Giolitti.

Borghesia dalla quale lo stesso Matteotti proveniva. La sua famiglia, radicatasi nel Polesine veneto, in un’area profondamente depressa, gli aveva consentito di proseguire gli studi in giurisprudenza, diventando avvocato, senza sostanzialmente mai esercitare la professione, e rinunziando alla carriera accademica, sebbene particolarmente portato per gli studi. Preferì a tutto l’impegno sociale e politico, nel tentativo di contribuire alla emancipazione dei braccianti.

Quella origine borghese ed agiata gli venne troppe volte rinfacciata come una colpa, unitamente alla responsabilità di aver tratto beneficio dal padre dipinto come un usuraio, anche dai compagni di partito: la pregiudiziale della tuta blu lo faceva vedere con sospetto, quasi fosse una anomalia perché da borghese si prendeva cura del benessere e del progresso degli ultimi. Ma si trattava di un pregiudizio che l’impegno irrequieto di Matteotti – per questo soprannominato Tempesta – sconfisse in fretta, in quel partito socialista che, anche a confronto con gli altri partiti socialisti e laburisti europei della sua epoca, si dimostrava fortemente interclassista, con ampia presenza, tra i suoi dirigenti ed iscritti, di intellettuali, professionisti, docenti delle scuole e delle università.
Dalle pagine di Funiciello emerge l’inconfondibile cifra del riformismo di Matteotti.

Già nello sviluppo del linguaggio degli scritti e degli interventi politici del socialista veneto si vede pian piano l’approdo ad un metodo induttivo. Ogni scritto, ogni intervento di Matteotti, che fosse tenuto in consiglio comunale a Fratta del Polesine o a Villanova del Ghebbo o nei panni di sindaco di Villamarzana oppure alla Camera dei Deputati, partiva da una attenta raccolta ed analisi dei fatti, con metodo induttivo, attenzione e cura per i dati, per le statistiche, per verificare l’utilità pratica o meno degli assunti teorici. Mai il contrario, mai lo sfogo e sfoggio di qualsiasi iperbole demagogica.

L’azione pratica di Matteotti, dal più piccolo comune del basso Veneto sino al Parlamento, ha il compito di verificare – scrive Funiciello – la tenuta degli assunti teorici alla prova del conflitto reale, guidando la continua revisione tattica di strumenti ed obiettivi.

Si tratta del paradigma della migliore tradizione del socialismo riformista, la stessa tradizione della socialdemocrazia tedesca che, con le parole di Eduard Bernstein, aveva avuto modo di constatare, alla fine del XIX secolo, “che il numero di possidenti aumenti invece che diminuire non è un’invenzione dei teorici borghesi delle armonie economiche, ma un fatto ormai incontestabile”. L’errore, per Bernstein così come per Matteotti, “sta nella dottrina, quando questa dà ad intendere che il progresso dipenda dal peggioramento della situazione”. L’esatto opposto del massimalismo per il quale se i fatti non venivano a patti con l’ideologia, tanto peggio per i fatti.

In quella prassi riformista non vi potrebbe esser più chiara smentita del determinismo del socialismo scientifico e dei comunisti, ovviamente.

Compito del riformismo, quindi, diventerà, per i socialisti come Matteotti, favorire la distribuzione del capitale, contrastandone la concentrazione allontanando con ciò gli stessi presupposti teorici per l’avvento del socialismo. Sarà la stessa ispirazione che muoverà Matteotti in uno dei suoi primi interventi da deputato, il 21 dicembre 1919. Siamo al tramonto del governo di Francesco Saverio Nitti, sostenuto da liberali, democratici e popolari.

In quel dibattito Matteotti sfiderà i liberali accusandoli di non saper fare i liberali mentre progettavano “imposte sui consumi che sono una vergogna politica”, dovendosi sostenere, invece, la tassazione del capitale immobile ed improduttivo, anziché redditi e consumi.
Ed ancora: criticherà successivamente, deplorandolo, il “riformismo statale” che pretende di far discendere tutto dalle “provvidenze dello Stato”, invocherà una effettiva lotta ai monopoli, si scaglierà contro le tariffe doganali che scoraggiano lo scambio di merci e proporrà riforme che rafforzino la competitività dell’economia italiana.

Matteotti qui di ricollegava a quel filone della sinistra e del socialismo italiano che in materia economica sosteneva moltissime proposte liberiste, da De Viti de Marco fino a Salvemini, passando per il compagno di partito di Matteotti, Menè Modigliani. Un liberismo empirico, mai ideologico.

Al riformismo in campo socioeconomico fece, poi, il paio la difesa non solo delle istituzioni dello stato liberale ma anche quella dei comportamenti che avrebbero dovuto improntare la condotta pubblica.
Quanto ai comportamenti, Funiciello ricorda il caso del congresso socialista del 1914, in cui venne affrontata la questione – non irrilevante per il partito socialista – della compatibilità tra affiliazione massonica ed iscrizione al partito.

In breve: rispetto all’ordine del giorno di Zibordi, che proponeva l’incompatibilità, Mussolini, al tempo come noto socialista e della peggior specie: massimalista, chiedeva di aggiungere, alla incompatibilità, l’invito alle sezioni del partito ad espellere quei compagni che non si fossero uniformati al divieto.

Fu questo il punto per Matteotti non accettabile: non l’incompatibilità tra affiliazione massonica e permanenza nel partito socialista sulla quale concordava, ma la caccia all’uomo, alle liste di proscrizione, a quella forma di inquisizione pronta e zelante a cacciar chiunque fosse in semplice odore di massoneria. In poche parole: Matteotti avversava già quella che sarebbe stata la cifra autoritaria ed illiberale del Mussolini fascista.

Strenua non poté non essere la difesa delle istituzioni liberali e delle libertà costituzionali contro la montante minaccia squadrista. Difesa che vide dalla stessa parte i socialisti turatiani, i liberali di Giovanni Amendola ed anche i popolari di don Sturzo.

Emblematico di tale atteggiamento fu l’episodio della approvazione della legge Acerbo, la legge elettorale che prevedeva il premio di maggioranza del 65% al partito che avesse raggiunto il 25% dei voti. Quella battaglia (persa) fu, secondo le parole dello storico Sabatucci, “il suicido della classe dirigente liberale”.

I socialisti riformisti videro in quella occasione la possibilità di staccare i popolari dal sostegno al governo Mussolini nato nel 1922.
Il disegno di legge, portato in commissione, avrebbe potuto vedere l’opposizione solida della maggioranza dei parlamentari: agli otto certi oppositori (comprensivi di due popolari e l’ex socialista Bonomi), su diciotto membri, andavano ad opporsi quattro fascisti – tra palesi e camuffati – con ancora sei voti, di liberali e conservatori, che avrebbero potuto decretare l’affossamento del disegno di legge.

Ma Giolitti, Orlando e Salandra si premurano di contentare i desiderata del prossimo Duce, tanto che il disegno di legge passerà con dieci voti favorevoli. A regime ben saldo Giolitti salvò il proprio decoro opponendosi al fascismo. Orlando e soprattutto Salandra rappresenteranno il lato meno nobile del vecchio notabilato liberale.

Prima che il disegno di legge venisse portato in assemblea, il Vaticano, consapevole di aver trovato in Mussolini l’uomo della Provvidenza e con il quale avrebbe poi ottenuto il Concordato, ordinò le dimissioni di Sturzo dalla segreteria del partito popolare. Abbattuto il pastore, divenne facile disperdere il gregge. Così, l’aula del parlamento, con persino l’astensione di Bonomi, il “socialista che si contenta” nella definizione di Salvemini, approverà la legge plebiscitaria. Legge di cui il fascismo alle successive elezioni non ebbe nemmeno bisogno: furono più utili le intimidazioni contro le libertà politiche, i manganelli e le violenze degli squadristi, per assicurare la vittoria della lista fascista.

Contro i brogli di quelle elezioni, poi, Matteotti pronuncerà il suo ultimo intervento, in quel fatale 30 maggio del 1924.
La difesa delle libertà costituzionali, in uno con la difesa della vecchia carta del regime liberale, fecero definitivamente individuare Matteotti come il nemico giurato del montante fascismo.

Ma contro Matteotti si scagliarono ciecamente anche i comunisti: gli rinfacciavano il rifiuto del metodo della violenza e la difesa della democrazia liberale. Lo stesso Gramsci, oltre a definire Matteotti un vile, attaccando il presunto “evangelismo o tolstoismo”, arriverà ad affibbiargli addosso – e siamo al 28 agosto 1924, quindi dopo la scoperta del corpo di Matteotti assassinato – l’infamante epiteto di “pellegrino del nulla”.

Non poteva esserci maggiore incompatibilità tra comunisti e socialisti riformisti.

Ad Angelo Tasca Matteotti ribadirà, fermamente “Lottare a fondo contro il fascismo? D’accordo. Ma in nome di che? Noi vogliamo lottare contro il fascismo in nome della libertà, voi della dittatura. C’è tra noi un dissidio di principio, insuperabile. (…) la vostra posizione fa il giuoco del fascismo. Siete disposti a dichiarare che rinunciate alla dittatura, che siete contro tutte le dittature? (…) se no, ciascuno deve andare per la propria strada”.

Ma anche da parte di Gobetti, in realtà, il ricordo che ne fece su La Rivoluzione Liberale non sarà lusinghiero. Troppo forte in Gobetti il maturato pregiudizio anti-socialista, incapace di apprezzare quanto invece quel manipolo di socialisti riformisti con a capo Matteotti tentò di fare per difendere le istituzioni liberali.

Il Matteotti che esce dalla penna di Gobetti – ricorda Funiciello – è una figura destinata ad “ascetica solitudine” destinato al “culto del silenzio”.

Il ritratto gobettiano di Matteotti non avrebbe potuto esser nulla di più lontano dal vero Matteotti, quello che aveva vissuto non in solitudine e non nel silenzio, come non erano in silenzio ed in solitudine i socialisti riformisti, primo tra tutti Turati che non a caso volle Matteotti quale segretario dei socialisti riformisti dopo che questi vennero cacciati dal partito socialista, oramai in preda al massimalismo parolaio.

Si è parlato di insegne all’inizio di questa recensione. Ecco, le insegne sotto le quali quel gruppo socialista, con Matteotti in testa, si presentò alle ultime (falsate) elezioni dell’Italia liberale, erano insegne della libertà: il simbolo non era la falce e il martello, ma il sol dell’avvenire con due scritte, in piccolo “socialismo”, in grande, a sovrastare il tutto, “libertà”.

Questa la storia vissuta di Matteotti, la storia di chi ha difeso la democrazia liberale e le sue libertà, pagandone un prezzo altissimo.
Ecco perché il ricordo di Matteotti da vivo è ancora più importante del suo sacrificio.