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Fra le allucinazioni collettive oggi in voga vi è quella secondo cui l’Italia con Mussolini avrebbe conosciuto una felice parentesi economica fra i disastri delle due guerre mondiali. Il Duce sarebbe stato un lungimirante statista, che pose le basi di un moderno welfare state, pianificatore di opere pubbliche e di una virtuosa presenza statale nell’economia nazionale, tradito da un destino cinico e baro. Niente di più falso.

Fra la fine del‘800 e l’avvento del fascismo l’economia italiana conobbe un’importante e lunga stagione di modernizzazione. Nel primo decennio del’900 l’Italia conseguì infatti il suo primo vero balzo economico e industriale agganciando “la prima globalizzazione”: il reddito pro capite italiano nel 1870 era pari al 38% di quello inglese, nel 1913 raggiunse il 55%, la produttività sia nell’industria che nei servizi crebbe di oltre il 2% annuo. Il raggiungimento del pareggio di bilancio per più esercizi consecutivi, iniziò a mettere l’Italia in buona luce verso gli investitori e comparvero così in Piemonte e Lombardia i primi investimenti industriali greenfield di importanti imprese straniere.

Senza supporto protezionistico si rafforzarono i settori tipici della seconda rivoluzione industriale: la gomma, l’automobile, la meccanica, la chimica. Sebbene non paragonabili allo sviluppo industriale di Francia, Inghilterra e Germania, la politica industriale dei governi liberali fu efficace. L’impresa italiana manifatturiera stava evolvendo anche in aree fuori dal Triangolo industriale Torino-Genova-Milano, ma soprattutto l’Italia riuscì a posizionarsi egregiamente sulla frontiera tecnologica dell’epoca, l’energia elettrica, sfruttando al massimo il potenziale idroelettrico alpino.

Iniziarono a svilupparsi importanti aree industriali anche in Emilia, Toscana, Veneto, Marche e Umbria, a Terni nacque il principale polo siderurgico italiano, mentre nel 1904 con la Legge Speciale per Napoli si posero le basi per l’industrializzazione della città. La maggiore apertura al commercio estero fece affluire nuovi prodotti che tennero bassi i prezzi dei consumi supportando il potere d’acquisto dei salari.

La Prima Guerra Mondiale fu una carneficina senza precedenti ma l’Italia fu l’unica nazione dell’Europa continentale che durante la Grande Guerra mantenne un PIL positivo. Il caos politico e la ricadute economico-sociali non furono paragonabili a quelle tedesche. Giolitti e l’establishment liberale si trovarono a dover gestire la transizione dell’Italia verso la "società di massa". Transizione che passò, dal punto di vista politico, da un intensificarsi dei rapporti fra i liberali e i due nuovi partiti di massa, quello popolare e quello socialista, che avevano ottenuto alle elezioni del 1919 rispettivamente il 20 e il 32%. L’affermarsi nel gruppo parlamentare socialista di una netta maggioranza riformista guidata da Matteotti e Turati portò al coinvolgimento, poi fallito, dei leader socialisti nelle consultazione per una nuova maggioranza di Governo fra liberali e socialisti, da allargare anche ai popolari di Sturzo. Da un lato il massimalismo che animava la base del partito socialista portò all’espulsione dei vertici riformisti per “collaborazionismo coi i partiti borghesi”, dall’altro l’illusione di Giolitti di assorbire i fascisti, fecero sì che i liberali con una parte di popolari optassero per il governo con il golpista Mussolini.

Il Biennio Rosso non fu in alcun modo un problema "risolto" dai fascisti: nonostante gravi casi di violenza, fu superato per via politica, come detto prima, ma anche per via sindacale con un netto miglioramento delle condizioni di lavoro e delle retribuzioni. I fascisti, anche grazie alla diffusa complicità delle forze dell’ordine, specularono politicamente sulle rivolte operaie solo ed esclusivamente per ingraziarsi le componenti più retrive e conservatrici dell’imprenditoria settentrionale. Nel 1919 fu stabilita la giornata lavorativa di otto ore mentre nel 1922 le retribuzioni reali erano cresciute quasi di un terzo rispetto al periodo prebellico. Sempre nel 1922 il deficit pubblico era sceso dal 22% al 6%, mentre il reddito pro capite crebbe del 7,5%. La conversione dell’industria da bellica a civile comportò un brusco calo del Pil del 9% fra il 1917 ed il 1920, ma già nel 1922 la crescita balzò al 6% annuo e restò tale fino al 1925, anno in cui Mussolini da due anni al Governo cambiò radicalmente ricetta economica. I fondamentali macroeconomici e industriali posti dai liberali nel decennio precedente il conflitto garantirono per tutti gli anni ’20 una crescita italiana superiore alla media europea, mentre una tendenza opposta si sarebbe registrata poi nel decennio successivo, dopo gli interventi economici del regime.

A due anni dalla presa del potere il Duce pretese un apprezzamento della lira sulla sterlina maggiore di quanto auspicato sia dagli industriali che dal nuovo ministro dell’economia Volpi, e fu adottata così la famosa “quota 90”. I mal di pancia degli industriali più esposti sull’export alla concorrenza estera e quindi contrari ad un apprezzamento così alto furono compensati da sussidi e da tagli fino al 20% dei salari - giacché nel frattempo erano stati sciolti i sindacati - mentre le imprese dipendenti dall’importazione di materie prime festeggiarono per l’abbattimento dei costi di approvvigionamento. Le valutazioni degli storici dell’economia su questa scelta sono unanimemente negative. La lira necessitava di un apprezzamento ma “quota 90” fu una scelta eccessiva: infatti il Pil, dopo una crescita media post bellica intorno 4% annuo, sul finire del decennio si attestò a meno del 3% e le imprese mantennero la loro competitività solo grazie a ulteriori riduzioni dei salari, aumento degli orari di lavoro e nuovi distorsivi incentivi pubblici. Fu proprio sul finire degli anni ’20 che prese forma definitivamente la politica economia fascista: meno concorrenza, condizioni di lavoro peggiori (furono abolite le 8 ore giornaliere), meno produttività e minore innovazione in cambio di una lira forte e produzioni protette e sussidiate.

L’Italia si trovò ad affrontare la Grande Crisi del ’29 in condizione peggiori rispetto a quelle del '22. L’impatto recessivo in Italia fu moderato rispetto alla media degli altri paesi europei con un picco negativo del Pil pro capite che sfiorava il 10%, non paragonabile al collasso tedesco o americano. Il regime fascista rispose alla crisi con un ampliamento considerevole della sfera pubblica in ambito industriale, con la costituzione dell’IRI al cui vertice viene posto il socialliberale Beneduce. Lo Stato attraverso l’IRI controllerà direttamente o indirettamente oltre il 40% del totale di tutte le azioni delle imprese quotate.

Mussolini optò inoltre per un’ulteriore stretta sulla concorrenza. I profitti delle imprese vennero garantiti imponendo la costituzione di consorzi e l’adesione a cartelli di settore per mantenere artificiosamente alti i prezzi, furono poi messi rigidissimi paletti all’ingresso nei mercati di nuove aziende. Per la creazione e l’ampliamento degli impianti gli imprenditori dovevano ottenere autorizzazioni e licenze governative limitate però per numero. Così molte imprese e cartelli si organizzarono per fare incetta di autorizzazioni e licenze senza poi procedere ai relativi investimenti, così da tenere fuori i competitor, in tutti gli anni’30 solo un decimo degli investimenti autorizzati vedrà la luce.

Il risultato della riduzione della concorrenza fu una netta frenata dell’innovazione, della produttività e degli investimenti esteri, mentre continuò a calare il potere d’acquisto. L’effetto anticiclico delle opere pubbliche edili ed infrastrutturali, che tanto risuona nella retorica revisionista, fu modesto in termini occupazionali con un incremento di alcune decine di migliaia di unità. La domanda interna non crebbe, anzi i consumi continuarono a scendere per tutto il decennio, mentre la spesa pubblica si espanse fino ad esplodere con la Guerra d’Etiopia, tant’è che fu abbandonata quota 90 e compromessa così anche la credibilità della Lira, che tanto cara era costata.

Benché colpite in modo più negativo rispetto all’Italia, le altre potenze nella seconda metà degli anni’30 conobbero una crescita del Pil pro capite nettamente superiore rispetto al magro +8% italiano. Il Pil pro capite tedesco e sovietico crebbero del 50%, quello americano e giapponese del 25%, quello francese del 13%. Causa di questa crescita più fiacca dell’economia italiana fu anche la scelta autarchica di contingentamento delle importazioni, una scelta dettata più dal convincimento ideologico che dall’efficacia delle sanzioni inflitte dalla Società delle Nazioni per il criminale conflitto con l’Etiopia.

L’illusione di poter raggiungere una maggiore autonomia dell’economia italiana, a parte alcuni avanzamenti nella ricerca scientifica, resero ulteriormente dirigiste, centralizzate e discrezionali le strategie di sviluppo zavorrando ancor di più un’economia sempre meno dinamica e vivace. Finalizzata a rendere l’Italia più forte in vista del conflitto oramai alle porte, la stretta protezionista fu l’ipoteca finale sulla capacità, anche militare, di concorrere con sistemi industriali, come quelli francesi e inglesi, che partivano in ogni ambito da posizione di nettissimo vantaggio rispetto all’Italia.

Anche sul versante agricolo, la famigerata "battaglia del grano" vide alti dazi sulle importazioni di grano straniero e comportò il crollo della produttività nel settore, con vaste aree di territorio sottratte a produzioni agricole a più alto valore aggiunto. Le famose bonifiche beneficirono solo pochi grandi proprietari terrieri e l’incremento delle terre coltivate rispetto alle aree bonificate fu scarsissimo. Una cattiva politica di sviluppo agricolo non poteva che peggiorare ulteriormente le condizioni del Mezzogiorno d’Italia, che durante il fascismo vide anche una diminuzione degli investimenti infrastrutturali ad esclusivo beneficio del Nord. Come se non bastasse la scarsa attenzione di Mussolini verso il Mezzogiorno si azzerò del tutto dopo la conquista dell’Etiopia.

Dal punto di vista sociale, la tanto sbandierata previdenza fascista non fu altro che una mera centralizzazione sotto la nuova INFPS di servizi istituiti dai governi liberali, proprio in virtù dello spostamento del baricentro politico verso nuovi partiti di massa prima degli anni’20. L’unico provvedimento sociale di rilievo introdotto dal Duce riguardò gli assegni familiari che rientravano in una ideologica quanto inconcludente campagna demografica di stimolo delle nascite: basti pensare che il tasso di natalità in Italia calò dal 3,74 nel 1922 al 2,37 del 1943.

In definitiva possiamo dire che il fascismo sul piano politico stroncò sul nascere la potenziale convergenza fra il vecchio establishment liberale in declino (che poi assecondò la monarchia e gli industriali del nord governando con Mussolini) e i nuovi partiti di massa in ascesa. Una convergenza che sembrava preludere a uno sviluppo di una moderna economia sociale di mercato, basata su concorrenze, innovazione, apertura al mercato coniugata a conquiste sociali ed una crescente coinvolgimento popolare nelle istituzioni. Il ventennio fascista riportò il paese indietro e innestò in profondità nella mentalità della classe dirigente che sopravvisse al ventennio un’idea di Stato quale prevalente attore dello sviluppo economico.

Le idee laiche, liberali e progressiste presenti nel vecchio establishment liberale di matrice risorgimene si dispersero nella partecipazione ai governi fascisti e non trovarono poi alcun grande partito di riferimento nel 1948. Una certa impostazione corporativa e statalista invece sopravvisse a lungo e si dimostrò del tutto incapace di proiettare lo sviluppo italiano nella nuova globalizzazione che giunse sul finire del’900, di cui l’Italia si è giovata in misura minore rispetto a quanto fece con la “prima globalizzazione” di inizio secolo.