Berlusconi e il populismo nel giorno del suo primo compleanno altrove
Istituzioni ed economia
L'arena politica che millennials e post-millennials italiani hanno osservato sin dalla loro nascita, anche distrattamente e con scarso interesse, ha continuativamente contemplato la figura di Silvio Berlusconi, figura giganteggiante sulle altre a prescindere dai consensi raccolti di lustro in lustro.
È come se lo scorso 12 Giugno dallo skyline di fronte al quale passeggiamo da sempre fosse sparito l'edificio più alto, un grattacielo maestoso, salvifico e imprescindibile agli occhi di molti, un ecomostro agli occhi di tanti altri, una struttura unica sul piano architettonico alla quale approcciarsi con equanimità per non moltissimi (era ed è richiesto uno sforzo di "de-emotivizzazione" significativo per adottare questo punto di vista), ma una figura essenziale agli occhi di tutti per la stessa riconoscibilità del panorama.
Oggi Silvio Berlusconi avrebbe compiuto ottantasette anni; con la produzione pubblicistica già fatta su di lui negli ultimi trenta si potrebbero riempire intere biblioteche – agiografie, letteratura scientifica, pubblicistica criminalizzante: la sua figura monumentale ha attraversato tutto “lo spettro del giudizio” che, partendo dalla beatificazione in vita, passa per l'analisi “avalutativa” per giungere infine alla mostrificazione.
Cercare di individuare la verità – o quantomeno una verità – su di lui rischia di essere un esercizio pretenzioso oltreché donchisciottesco; però, a storicizzazione avviata, è il caso di sgomberare immediatamente il campo da un equivoco.
La Repubblica, all’indomani della dipartita del suo nemico storico, aggrappandosi a un’inesattezza – un equivoco, appunto – che per vent’anni ha contribuito a far sedimentare ha titolato «Il primo populista». Né il direttore nel suo editoriale né le firme di punta nei loro coccodrilli – né nessun altro sostenitore di questa tesi anche al di fuori della redazione di Repubblica – ha mai argomentato in maniera convincente, così legittimando il sospetto che la categoria del populismo venga banalmente usata contro Berlusconi per il disvalore che vi è sotteso.
Berlusconi non fu mai un populista nel senso postmoderno, e cioè nazionalista e/o qualunquista, del termine: non si è mai rivolto al “popolo” inteso come blocco monolitico, omogeneo e apoditticamente virtuoso minacciato dall'invasione di un “popolo altro” o depredato da una casta di delinquenti della cui ascesa non è responsabile e la cui impunità è blindata dalle inutili procedure e dagli inutili orpelli di una democrazia che, per essere autenticamente tale, deve smettere di essere rappresentativa e diventare plebiscitaria e accessibile all'uomo qualunque senza intermediazioni di sorta (questo è, scientificamente, il populismo).
Berlusconi fu, questo sì, un outsider, ma il popolo a cui parlava – quantomeno al suo esordio – era, sul piano quantitativo, un segmento ben identificabile del mercato elettorale; su quello qualitativo un popolo che voleva “impoliticamente” essere lasciato in pace, l’esatto contrario di quel popolo digiuno di cultura istituzionale quando non di cultura tour court smanioso di mandare tutti in galera per accedere alla plancia di comando (così il populismo qualunquista grillino): in plancia dovevano andarci, secondo la narrazione appunto primo-berlusconiana, uomini d'azienda che gestissero aziendalisticamente il Paese.
Il popolo cui Berlusconi si rivolgeva non era nemmeno un popolo “puro” minacciato dall'imminente arrivo di orde di barbari dal sud d'Italia o del mondo (così l'etno-populismo della Lega bossiana e il nazionalpopulismo della Lega salviniana e della Meloni movimentista).
Non fu l’inventore di una forma di populismo tutta sua, fu semmai prima beneficiario e poi bersaglio di un populismo antico e nuovo al contempo: quello giudiziario. In brevissimo (anche se su questo tema è impossibile anche solo lambire una qualche esaustività in un semplice articolo), per cultura, indole, condizionamento ambientale – vedasi la svolta “antiformalistica” presa dagli anni '60 in poi – una parte della magistratura trascurabile nel numero ma non negli effetti delle sue gesta percepisce la propria attività come quella di un apostolato al servizio della Dea Giustizia: si senta dunque incaricata di agire a difesa di un “popolo” inteso come blocco monolitico, omogeneo e apoditticamente virtuoso (ed eccoci al populismo propriamente detto…) depredato da delinquenti abusivamente insidiatisi nelle istituzioni.
Berlusconi passeggiò sulle macerie dell’ordalia manipulitista nei primi anni ’90, salvo poi trascorrere la seconda metà della sua parabola politica a difendersi strenuamente dal protagonismo delle procure più convintamente antiberlusconiane. Non fece nulla in prevenzione né nella dimensione privata (e sia detto a margine che gli harem tardo-berlusconiani, prima che penalmente rilevanti, furono moralmente squallidissimi e soprattutto politicamente molto inopportuni), né in quella politica: preferì sempre agire a posteriori tramite leggi ad personam anziché riforme organiche – va aggiunto a titolo di attenuante che dalle nostre parti le riforme organiche o semplicemente di alto impatto su interessi costituiti e corporazioni o “l'apparato” non le lascia fare o le delega a tecnici che finiscono per farle male, emergenzialmente e con un deficit di legittimazione popolare; pare peraltro che il tavolo delle riforme istituzionali sul quale nel ’97 fu adagiata la crostata del famoso patto saltò proprio sulla revisione del titolo IV, quello che riguarda la magistratura.
Ad ogni modo, leggi ad personam a parte, le gravi e delegittimanti uscite di Berlusconi contro la magistratura (finanche contro la Consulta) non sono mai state suggestioni insurrezionaliste in stile trumpiano – “Il Caimano” di Nanni Moretti raccontò il tycoon sbagliato – quanto piuttosto pose strumentalmente democraticiste assunte nell’ambito di un lungo conflitto interistituzionale, conflitto nel quale l'anomalia Berlusconi si specchiava in contro-anomalie altrettanto se non più problematiche per la qualità della democrazia liberale (una cosa non legittima l'altra ma certamente la ridimensiona).
Importò la "televisionizzazione" della politica e, avviatasi una stagione ineditamente maggioritaria, da istrione quale era si trovò a proprio agio nella forte personalizzazione della leadership che ne conseguì. L'una la importò dagli USA – la sua vittoria nel piccolo schermo contro Occhetto fu la versione italiana, più di trent'anni dopo e alla rovescia, della vittoria di Kennedy contro Nixon – e l'altra era nella natura delle cose post-primorepubblicane, peraltro dopo una prima, significativa avvisaglia craxiana.
Adottò spesso un registro demagogico, ma non più di qualunque homo novus si sia presentato prima e dopo di lui (ormai sarebbe anomalo non adottarlo) e, lo si ribadisca, l’enfasi democraticista che spesso si concedette fu sempre una contromisura strategica e mai una manifestazione dell’essenza politico-ideologica berlusconiana: i toni compassati con cui gestì le proprie dimissioni nel 2011 – per poi agire attivamente perché il primo responsabile della sua detronizzazione dall’alto, cioè Giorgio Napolitano, accettasse la ricandidatura al Quirinale due anni dopo – ne sono solo la prova più lampante.
Sulla falsariga della memorabile omelia dell’arcivescovo Delpini, si può sostenere che, nel bene e nel male, Berlusconi «è un uomo e ora incontra Dio», ma attribuirgli predicati d’onore e di disonore diversi da quelli che gli spettano è fare torto alla verità e a noi stessi, oltreché alla sua memoria – e non sarebbe il caso, sarebbe il caso di dare a Cesare quel che è di Cesare a partire dal primo compleanno che trascorre nell’aldilà.