Romeo Rosario grande

“Al di là di un certo limite, con i comunisti, non si discute”.

Rosario Romeo (nella foto).

Sentenza di rara eternità e umana perfezione, che, s’intende, è indipendente dalla effimera mutevolezza di nomi e sigle: fissa una disposizione storica profondamente italiana, in cui certo anarchismo di base già lumeggiato da Salvatorelli a proposito del parto gemellare del ‘21/‘22 (cioè più o meno plebeo e culturalmente vano); si ipostatizza in una grottesca incapacità a tenere un filo di logica, fosse pure il più tenue e, perciò, di umana rettitudine e disciplina morale. Come anche recenti e aggressive polemiche contro Guido Vitiello e Matteo Marchesini sono lí a dimostrare (se mai ce ne fosse ancora bisogno). Quale che sia la materia nella quale si manifesti: dalla Fiat delle “battaglie”, fino a Seattle, passando per l’innumerevole toponomastica ribellistico-chiacchierina del secolo scorso e del presente, impotente prigioniero dell’altro.

Femminismo della quinta ondata, che ce l’ha persino con le suffragette; Intersezionali, che odiano i gay non meno di ogni forma di vita; schwaisti, negatori di qualsiasi forma di ordinamento intellettivo e spirituale naturalmente dato, a partire dalla Grammatica Creaturale del povero Chomsky; generalmente, Tutori dei poveri ed emarginati, sempre in sospetto di essere cripto-fasci, e, ça va sans dire, inconsapevoli, tranne quando rimangano zitti e buoni nei loro paper, perché due lire di mano propria mai, essendo la colpa del sistema e io, critico illuminato, già offro la mia impavida denuncia; da ultimo, Michelamurgisti, che della compianta scrittrice non hanno nemmeno sfiorato la complessità di dolore e speranza, di cui la pubblicizzazione di malattia e morte intendeva in qualche modo essere proposta a uno spirito pubblico frettolosamente secolarizzato e sciattamente, digitalmente, alienato; e così via.

Il tutto, in una petulante riproposizione, nonostante sia di quinta mano: tutti questi dimenticano come l’Italia dopo la fine della Guerra Fredda, bon grè mal grè, scenario capace di sottrarla ad un’endemica insignificanza collettiva, sia tornata nella sua secolare condizione periferica, che nelle sue pretese di scrivere e di iscriversi nel “Progresso”, o nel campo ineffabile della “Kultur” e del “Kampf”, si fa affannosamente emulativa.

Insomma, comunismo, oltre una certa soglia (di qua dalla quale, ciascuno può riconoscere quei pochi che hanno dato e non preso e pure perso, in termini di personali possibilità sviate da un errore, e dunque, meritevoli di rispetto e umana considerazione, cioè di parola e di dialogo e discussione: non come nel giro dell'universo cooperativo con aliquote fiscali abbattute e a sostegno di un pubblico ministero-Mr. Wolf, nei casi di più tenace resistenza del “nemico-non-collaborante”, per capirci) maschera dell’Eterno Cretinismo Italiano.

Una tara, una tabe, un tabù.