murodi berlino grande

A pensare che gli anniversari servono a poco, se non a dare occasione agli scribacchini seriali di esercitare la propria vocazione, non si andrebbe tanto lontano dalla verità. Nel tempo accelerato in cui viviamo, informazioni ed eventi scorrono al fast forward, rendendo celebrazioni e ricorrenze poco più di una nota – o un post – a margine. Ci sono però alcuni momenti in cui una data storicamente importante sembra involontariamente volerci invitare a una riflessione sul presente, rinforzando il ruolo della storia come chiave di lettura della contemporaneità.

Edward Carr ci metteva in guardia già nel 1961 sulla tendenza degli storici a ricoprire di significato gli eventi trascorsi, trasformandoli da “fatti del passato” in “fatti storici”. Se fosse stato ancora vivo nel 1989 per assistere alle folle festanti riversarsi attraverso il muro di Berlino, però, forse anche Carr avrebbe messo da parte il suo rifiuto per la contingenza come fattore rilevante nella storia.

Senza bisogno di scomodare troppo la citazione di rito di Fukuyama sulla “fine della storia”, è scontato guardare alla notte di quel nove novembre del 1989 in termini di “prima” e “dopo”. Sul prima si è detto e scritto tantissimo, sul dopo non altrettanto, essendo quello il tempo della nostra contemporaneità, sulla quale i giudizi assennati sono sempre rari e distanti fra loro. Nell’anno del 30+1 dalla fine – simbolica e convenzionale, ma pur sempre fine – della guerra fredda, è forse giunto il momento di una riflessione che si sforzi di guardare a questi tre decenni in una chiave di continuità e consequenzialità. Farlo significherebbe anche ribaltare la tipicità dello sguardo contemporaneo: ristretto, claustrofobico, ossessionato dall’”ora e subito” e dall’immediatamente vicino. Impresa non da poco.

Perseverando nella dannosa pratica delle periodizzazioni storiche, potremmo definire ogni decennio trascorso dalla caduta del Muro con un –ismo: ottimismo, terrorismo, populismo. Sono semplificazioni, ma proprio in quanto tali possono aiutarci a interpretare fenomeni complessi. Allo stesso modo le cesure, che avrebbero certamente fatto storcere il naso a Carr, contribuiscono a dare un ordine al caos apparente della storia. Tre sono quelle più evidenti: l’undici settembre, la crisi finanziaria, e una terza che potete forse intuire ma che lascerò per dopo. Definizioni, semplificazioni e cesure possono servire a creare i contorni di un disegno, ad abbozzarne le proporzioni, ma sono i dettagli e i colori a dare un senso all’immagine. Come riempire al meglio il disegno degli ultimi trent’anni è una domanda che dobbiamo cominciare a porci, nonostante la risposta si trovi ancora molto lontana da noi.

L’ottimismo degli anni Novanta nasce dalle immagini della notte della caduta del Muro: sono i berlinesi che stappano champagne per strada, ballano sul simbolo della loro oppressione, abbracciano fratelli e sorelle mai visti prima. La “fine della storia” era, in realtà, fiducia nella fine dei conflitti e nel progresso “naturale” di un modello, quello capitalistico-occidentale, politicamente fondato sulle democrazie liberali, che avrebbe dovuto allargare il proprio benessere a tutto il globo una volta cadute le barriere del socialismo. La globalizzazione era considerata, e voluta, come il passo successivo alla fine di quelle barriere. L’ottimismo ha la sua inarrestabile forza creatrice, e il mondo all’alba del terzo millennio era molto diverso da quello del novembre 1989.

L’ottimismo è anche, però, ingenuo per sua natura, tende a ignorare gli angoli dove la luce non arriva, e il decennio successivo sembra quasi creato appositamente per smentire l’affermazione di Fukuyama. Negli anni Duemila divenne evidente che la globalizzazione non aveva cancellato le barriere, le aveva solo spostate. I conflitti non erano scomparsi, ma si erano addirittura radicalizzati: comunismo e capitalismo erano convissuti per quattro decenni, giungendo a compromessi più spesso che a conflitti (l’Italia della guerra fredda ne è esempio perfetto), ma con il terrorismo non c’era (e non c’è) compromesso, nessuna mediazione, solo volontà di annientamento. Un’altra zona d’ombra della globalizzazione, le cui effettive conseguenze sarebbero state presto chiare, fu creata a soli due mesi di distanza dalla tragedia delle Torri Gemelle, con l’ammissione della Cina nel World Trade Organization.

Se il modello geopolitico uscito dalla guerra fredda ha cominciato a creparsi con l’undici settembre, quello economico del neoliberismo globalizzato ha resistito invece fino alla grande crisi di fine decennio, che diede il colpo di grazia a ciò che restava dell’epoca dell’ottimismo. Le conseguenze sono state molteplici, ma quella che forse ha avuto effetti più di lungo termine è la crisi di legittimità delle classi politiche sopravvissute alla, e in certe casi generate dalla, fine della guerra fredda. Tutti i populismi (termine che necessiterà quanto prima di uno sforzo serio di definizione), nella varietà di forme e connotati assunti, hanno in comune un’idea di base della politica e dei suoi professionisti come lontani dalle esigenze del “popolo”. Sono state le élite a creare la grande crisi, dice la vulgata populista, e sono stati loro a beneficiarne.

Al di là delle ideologie, è un fenomeno chiaramente osservabile che, da quel fatidico nove novembre 1989, le liberal-democrazie occidentali hanno accelerato bruscamente la tendenza cominciata col neo conservatorismo Tatcher/Reagan e virato sempre più sul “liberal”, allontanandosi invece dagli aspetti democratici, intesi questi non come modelli istituzionali ma come attenzione verso i diritti sociali, l’uguaglianza e l’estensione della partecipazione politica – che non si limita certo al diritto di voto. L’esempio più lampante è la percezione della Comunità Europea, un’istituzione per cui pochissimi cittadini votano, vista come un’onnipotente burocrazia rimossa, fisicamente e concettualmente, dai bisogni del “popolo”, serva ed esecutrice dei grandi poteri della finanza globalista.

La terza cesura è, chiaramente, quella del covid-19. La rivoluzione globale pandemica ha fornito alle classi politiche delegittimate un’occasione imperdibile per riaffermare il proprio controllo sulla società, mettendo però in questo modo in crisi lo stesso modello di Stato liberal-democratico.

(continua)