Riforme istituzionali e strapaese. Breve storia del Sindaco d’Italia
Istituzioni ed economia
“Il sindaco d'Italia” è anzitutto una grande trovata sul piano del marketing politico-istituzionale: solletica la mentalità strapaesana e campanilistica prevalente nel Belpaese.
In realtà, per usare termini tecnicamente più appropriati, l'elezione diretta del capo dell'esecutivo è l'elemento qualificante della forma di governo neoparlamentare, così come la battezzò il politologo Maurice Duverger, convinto che la previsione del rapporto di fiducia fra Parlamento e Governo, fiducia per di più blindata dalla clausola simul stabunt vel simul cadent, fosse di per sé sufficiente per includere tale regime nell'alveo dei parlamentarismi (ci sembra più appropriata la definizione di “forma di governo semiparlamentare” data dal costituzionalista Luigi Primicerio: un'elezione diretta e l'assetto dualistico che da essa consegue sono elementi fortemente “presidenzializzanti”).
Ad ogni modo, com'è evidente, si tratta di un ibrido teorizzato per forzare tramite la giuridificazione del modello di Westminister – parlamentarismo a prevalenza del governo – una forma di premierato su sistemi politici non bipolari.
A partire dal 1993 tale forma di governo, in varianti sulle quali qui non è il caso di soffermarsi, è stata adottata (con successo, va detto) per le elezioni di sindaci e consigli comunali e presidenti di regioni e consigli regionali: sindaci e “governatori”, forti di una legittimazione diretta, nominano e revocano i loro assessori, destando le invidie di, in ordine cronologico, Berlusconi e Renzi (per l'intanto omettiamo Meloni), che avrebbero voluto disporre dei medesimi poteri coi loro ministri.
Il primo tentativo di nazionalizzare il modello semiparlamentare – eccoci appunto al “Sindaco d'Italia”… e al diverso impatto che diversi ordini di grandezza politico-amministrativa possono avere sulle forme di governo – risale, come si è accennato, alla XIV legislatura; se si volesse insistere sul “colore”, la verticalizzazione cui allora (2001-2006) Berlusconi ambiva era mutuata più dal modello aziendalistico che da quello comunale – del resto l'attitudine del tycoon ad “aziendalizzare” tutto, inclusi partito e appunto forma di governo, è nota.
Peccato, sia detto a titolo di brevissima divagazione, che non abbia aziendalizzato anche le sue politiche di bilancio, sottoponendole con più vigore, durante gli anni immediatamente precedenti la crisi del debito sovrano, a quello che gli economisti aziendali chiamano principio di solvibilità: dovette intervenire il Presidente della Repubblica perché un tecnico venisse a sistemare i conti (dunque questa non è, in realtà, una divagazione: è grazie alla “debolezza costituzionalizzata” del Presidente del consiglio se negli ultimi trent'anni i Capi dello Stato hanno potuto intervenire giusto un secondo prima che si precipitasse nel baratro – Scalfaro nominando Ciampi, Napolitano nominando Monti, Mattarella neutralizzando i nazionalpopulisti e poi chiamando Draghi… perciò quando oggi Meloni, proponendo una forma di premierato purchessia, si premura di specificare che comunque i poteri del Quirinale rimarrebbero intatti, sembra farlo più per galateo istituzionale che per convinzione).
In brevissimo, tornando alla proposta berlusconiana, con il combinato disposto tra legge Calderoli e revisione della Costituzione – approvata dalle Camere e bocciata nel referendum del 25-26 giugno 2006 – il primo ministro sarebbe stato nominato dal Capo dello Stato in stretto esito del risultato elettorale, avrebbe nominato e revocato i ministri e avrebbe potuto essere sfiduciato e anche sostituito per via parlamentare, a condizione però che ciò fosse avvenuto nell'ambito delle forze politiche vincitrici delle elezioni.
“Il sindaco d'Italia” di fattura renziana, invece, sarebbe stato tale quasi esclusivamente in virtù dell'Italicum, dunque di una legge ordinaria; l'impatto della riforma Renzi-Boschi sulla figura del Presidente del consiglio, infatti, sarebbe stato perlopiù collaterale (e, a dirla tutta, si trattava di dispositivi di stabilizzazione tutto sommato condivisibili, al netto appunto del sistema elettorale).
L'Italicum prevedeva fra le altre cose un premio di maggioranza alla lista o alla coalizione che avesse raggiunto il 40% dei consensi e, nel caso in cui quella soglia non fosse stata raggiunta, un ballottaggio tra le due liste o coalizioni più votate; quest'ultimo fu com'è noto bocciato dalla Corte costituzionale.
Oggi la forma di governo semiparlamentare è il second best di Meloni; imbattutasi solo in dinieghi sul presidenzialismo nelle sue diverse varianti, cavallo di battaglia della tradizione missina e modello troppo estraneo al “sistema Italia” per poter esservi trapiantato, sembra aver trovato una (pur vacillante) sponda terzopolista sul ciclicamente redivivo Sindaco d'Italia.
Quest’approccio, quello della “legittimazione diretta purchessia”, tradisce la superficialità e, absit iniuria verbis, lo spirito ideologista con cui la Presidente del consiglio sta affrontando il tema delle riforme istituzionali; per giungere alla tanto sospirata “democrazia decidente” non è necessario né adottare premi di maggioranza irrazionalmente disporzionalizzanti, come si tentò di fare con Porcellum e Italicum (è, ancora una volta, una questione di ordini di grandezza: i correttivi maggioritari tollerabili negli enti substatali non sono sempre e comunque nazionalizzabili); né forzare dentro una diarchia, per di più in una posizione asimmetrica, l'inquilino del Quirinale, il quale, come si accennava, negli ultimi trent'anni è stato proprio l'elemento più stabile e stabilizzante dell'intero sistema politico-istituzionale: perché intervenire su di esso anziché sui “cedimenti strutturali” unanimemente riconosciuti come tali dagli addetti ai lavori – cioè leggi elettorali pensate solo per partitocratizzare il voto, monocameralismo alternato e più generalmente marginalizzazione del Parlamento (ormai ridotto al ruolo di passacarte degli esecutivi pro tempore), debole razionalizzazione del raccordo dello stesso col Governo, assenza di una Camera di raccordo fra enti territoriali e Stato centrale (con conseguente dirottamento di tutti i contenziosi alla Consulta, che finisce per fare da supplente anche su questo – oltreché su temi come ergastolo ostativo, eutanasia e altre quisquilie – a un Parlamento, lo si ribadisca, marginalizzato) ecc. Perché?
Forse perché le incrostazioni ideologiche fanno premio sulle esigenze di funzionalizzazione: anche questo, in fin dei conti, è strapaesanismo.
P. S. Si è volutamente scelto di non citare lo stra-citato Israele quale unico Stato ad aver sperimentato il modello semiparlamentare (dal 1992 al 2001) perché una comparazione fra “Costituzioni formali” – una comparazione che dunque non contempli anche fattori “extra-costituzionali”, come diritto non scritto e legislazione elettorale, e fattori non strettamente giuridici – è perciò stesso una comparazione monca.