Elogio del funzionario politico. Un rovesciamento non moralista dalla questione morale
Istituzioni ed economia
In una recente intervista Peppe Provenzano, vicesegretario del Partito Democratico, nel commentare i recenti casi di malaffare e di corruzione dentro il Parlamento europeo, ha in qualche modo confermato l'attualità della questione morale berlingueriana ribaltandone, però, il segno: da prodotto del surplus del potere partitico a degenerazione frutto del depotenziamento del freno collettivo valoriale. Ecco un estratto significativo del suo pensiero:
"La questione morale di Berlinguer ha la sua attualità, anche se oggi si pone in termini per certi versi rovesciati. Allora c'erano partiti come macchine di potere. [...] Oggi [...] la corruzione è personale, causa ed effetto della debolezza dei soggetti collettivi [...] vedo pezzi di gruppi dirigenti, a tutti i livelli, in cui si allenta la tensione ideale, il fuoco sacro della fede politica. [...] Mi verrebbe voglia da dire una cosa molto inattuale [...] È l'elogio del funzionario di partito. [...] Se avessimo avuto un funzionario che si occupasse a tempo pieno per il partito, e non per qualche eletto, di Golfo Persico, magari avremmo avuto le antenne su movimenti strani [...]".
La cosa più interessante, a mio parere, è proprio la declinazione "rovesciata" - cioè, di nuovo, attualizzata - della questione morale di Berlinguer.
Al tempo dello storico segretario comunista la rivendicata moralità nella politica, insieme alla retorica dell'austerità, serviva a "frenare" gli istinti predatori dei partiti governativi della Prima Repubblica (ma gli altri erano davvero all'opposizione, erano davvero "altro"?): forti, autosufficienti, orgogliosi, indipendenti e in competizione feroce per il potere, e a rivendicare, anche solo per la sedicente acclarata capacità di "analisi" e di critica, la diversità ontologica del PCI, emergente dal legame indissolubile con l'ortodossia ideologica legata alla tradizione "scientifica" del marxismo. Oggi, invece, il quadro è, appunto, rovesciato.
La questione morale, lo dice chiaro Provenzano, è ancora di più, se possibile, questione personale, intima, di formazione esistenziale, propria di un cedimento antropologico senz'altro legato anche al venir meno dei bastioni formali (Stato e Chiesa in primis) del potere costituito. I partiti "totali" non esistono più (per fortuna!), gli argini ideologici sono inesistenti, le scuole di partito sono morte, non esistono "fogli" o spazi per le pubblicazioni dei militanti, per il confronto corale. Insomma, con l'acqua sporca dell'intransigente esegesi "letterale" dei sacri testi teologico-politici è stato scartato ogni vagito nuovo di strutturazione "mite" - ma concreta e efficace - di un'offerta politica finalmente seria, attenta al dibattito culturale, formalizzata in partiti "veri" sottoposti al metodo democratico, senza derive personalistiche e padronali.
In questo scatafascio senza grandezze (a fronte dell'enormità tragica e feconda, va riconosciuto, di quella partitocrazia post bellica oggetto degli strali di Marco Pannella) emerge, appunto, l'assenza di un disegno organico, di forme tutelate, di militanza convogliata in modo organizzato verso un obiettivo condiviso da realizzare attraverso "mezzi", strumenti, tali da anticipare loro stessi - nella moralità e nella austerità, appunto - i fini da raggiungere.
Potremmo dire, e questo vulnus ricade come colpa su tutta la politica italiana di oggi e di ieri, che emerge sempre più il vuoto istituzionale che deriva dalla decisione di non applicare l'art. 49 della Carta Costituzionale: la mancata qualificazione repubblicana di un'associazione speciale, quella del partito, appunto, che è vincolata al "metodo democratico" (che significa statuti, regole, iscritti, sedi, congressi, dibattiti, sintesi, documenti, proposte, accordi, vincoli, elaborazioni teoriche, realizzazioni pratiche, costi, finanziamenti, aiuti di Stato alla politica) proprio perché solo questo - solo il metodo democratico e non l'abuso di potere - può giungere a determinare la politica nazionale di uno stato di diritto.
Provenzano, addirittura, compie un passo davvero inattuale, approfondisce nel concreto il deficit contingente:
fa l'elogio del "funzionario di partito", di una figura competente, di un professionista della comunità politica che, affiancando gli eletti, realizza gli interessi degli iscritti, di un "popolo" che condivide ideali comuni.
Non si tratta, a ben vedere, dell'elogio di un grigio burocrate (certo il rischio esiste ma è meglio il "colorato" e sfrontato esibizionismo del lobbista a caccia di politici in svendita?) ma di un rinnovato approccio "stabile" alle organizzazioni che gestiscono consenso, speranze, battaglie riformiste.
Come si fa, appunto, ad affrontare temi, questioni, rapporti con poteri indiretti, tavoli di confronto, sollecitazioni culturali, senza professionisti legati ad una qualche espressione di interesse collettivo, di "bene comune", senza la libertà garantita da uno stipendio dignitoso che "protegge" dal rischio incombente della corruzione (innanzitutto spirituale), senza cioè il trascendimento dell'interesse spicciolo proprio dell'avventuriero a caccia di un mezzo di trasporto qualunque verso l'arricchimento e/o l'affermazione individuale?
La mancanza di questi organi organizzativi, il mito nefasto del "partito leggero" (ben diverso dal transpartito pannelliano che moltiplicava il peso e la durata del ruolo), ha visto trionfare, quindi, clown e portaborse pronti a sottomettersi ai potenti/eletti di turno, senza alcun moto di coscienza che, va riconosciuto, può trovare davvero origine e stimolo dall'appartenenza corale a qualcosa di più alto, a qualcosa di diverso, ad un "mondo" compresente e compartecipe destinato a sopravvivere al destino dei singoli.
Senza queste figure, senza partiti innovati e vincolati al rispetto della propria legalità interna e legittimità valoriale, senza questo ausilio per i circoli, i territori, le istituzioni elette, la politica rischia di essere ciò che oggi è per lo più in Italia:
un'occasione, un trampolino, un punto di partenza per arrivisti e nichilisti, per chi non crede davvero a nulla, per gli estremisti del consenso carpito e tradito.
Senza alcun cedimento al moralismo e all'improduttiva retorica del ritorno al passat", mi sembra che, in fine, il richiamo più utile sia quello alla radicalità dell'impegno (non al radicalismo), alla profondità di ciò che conta, di ciò che fonda un progetto politico progressista (non nel senso dell'inesistente "legge storica" ma del sempre possibile impegno per il meglio): il riconoscimento della priorità del bene comune, la lotta alle diseguaglianze, il buon senso delle riforme come tensione operativa - sempre aperta alla salutare revisione a fronte della prova dei fatti - verso la concretazione di ideali e progetti coltivati non solo proprio intimo, ma tra i "compagni".