Napolitano e corazziere grande

È giusto che Giorgio Napolitano sia ricordato, valutato e giudicato storicamente per l’interpretazione che diede del ruolo di Presidente della Repubblica. Tuttavia, l’aspetto forse più interessante della parabola storica dell’ex Capo dello Stato sta nella sua natura e cultura di comunista migliorista, che pure è legata al modo in cui si comportò al Quirinale.

Napolitano fu un comunista atipico, ma non un comunista eretico. Il suo più grande torto, il sostegno irricevibile all’URSS anche ben dopo i fatti di Ungheria del 1956, fu un grave torto del PCI, e solo in questo senso merita di essere storicizzato, senza sconti. Eppure, l’adesione alla linea riformista di Amendola diede frutti significativi e originali.

Il PCI di Berlinguer, soprattutto dopo il fallimento del compromesso storico, si chiuse in un vicolo cieco: una “terza via” impossibile tra comunismo sovietico e socialdemocrazia europea, perché lo stesso termine di socialdemocrazia restava una deviazione ideologica da ripudiare dogmaticamente.

Berlinguer arrivò a dire, nel 1981, che “la spinta propulsiva della rivoluzione d’ottobre si è esaurita”, in questo continuando a rivendicare un legame con quella stessa rivoluzione, eppure tenendosi necessariamente sui binari della democrazia e vaneggiando di “un altro tipo di rivoluzione”. Cos’era quel PCI di Berlinguer che pretendeva di conciliare in qualche modo l’idea che “il mercato possa mantenere una funzione essenziale” e la stessa democrazia italiana, con il marxismo-leninismo, mai ripudiato e concepito come vera teoria rivoluzionaria in grado di superare i “vizi tipici della socialdemocrazia”, fra cui “l’evoluzionismo riformista” (1978)?

Era PCI in cui anche la scelta atlantica aveva una sua doppiezza. Il 15 giugno 1976, pochi giorni prima delle elezioni, Berlinguer dichiarò al Corriere di sentirsi più sicuro sotto l’ombrello della NATO, ma quello stesso passaggio fu omesso nella versione pubblicata su L’Unità e Liberazione (evidentemente in accordo con lo stesso segretario).

Fu quell’incrostazione dogmatica e quella riserva mai superata sul connotato di classe della democrazia borghese a impedire l’evoluzione del PCI verso un grande partito socialdemocratico, che la Germania era riuscita ad avere fin dal 1959 con la svolta di Bad Godesberg. Il PCI rimase il partito dell’impossibile, per questo rifugiatosi nel settarismo della “questione morale” e impegnato a dipingere il proprio isolamento anti-storico come diversità inconciliabile con la corruzione dell’intero sistema partitico.

Il Napolitano migliorista colse questo vicolo cieco prima di molti altri nel PCI, e criticò su questo fronte Berlinguer. Lavorò incessantemente come tessitore e ministro degli Esteri del PCI, consolidando rapporti europei e americani, ignorando le distinzioni dogmatiche, operando per un PCI normalizzato nella sinistra europea, più vicino ai socialisti italiani, aperto alla storia che passava e non chiuso nel culto di una intransigenza ormai solo virtualmente rivoluzionaria.

Divenne un comunista del possibile, dunque un non comunista; un grande realista, dunque un grande politico.

La stessa parabola presidenziale di Napolitano, descritta dai suoi critici come un appalto della democrazia nazionale al vincolo esterno europeo e al controllo tecnocratico, ha conservato una caratterizzazione fortemente politica e quell’inclinazione, tipica anche del Napolitano “pre-presidenziale”, a privilegiare la dimensione istituzionale rispetto a quella partitica e a opporsi alla deriva demagogica e identitaria, recriminatoria e vittimista, del sistema dei partiti.

Questo non fu chiaro solo in decisioni cruciali dal punto di vista etico come il famoso “scontro” con il governo Berlusconi sulla vicenda di Eluana Englaro, ma anche in altri passaggi spesso dimenticati e più spesso equivocati.

Politicissima (e addirittura “politicistica”) fu la scelta del comitato dei famosi saggi che sbloccò l’impasse venutosi a creare nel 2013, dopo le prime elezioni della cosiddetta “Terza Repubblica” e che creò con il governo Letta uno spazio di manovra che poi Renzi utilizzò per la propria ascesa ai vertici del PD e del governo.

Politicissima e super-istituzionale fu anche la scelta del 2010, dimenticata quasi da tutti e in modo particolarmente disonesto da parte della destra italiana, di concedere a Berlusconi un mese prima di discutere la mozione di sfiducia al suo Governo, dopo la rottura di Fini, per impedire che la crisi dell’esecutivo impedisse l’approvazione della legge di stabilità. Berlusconi usò quel mese per raggranellare i voti necessari a rimanere in sella anche tra le fila di quanti avevano promosso la sfiducia.

Non è un caso peraltro, se un anno dopo, nel 2011, Berlusconi in Parlamento definì “impeccabile” il comportamento dell’allora Presidente della Repubblica, che nelle livorose ricostruzioni della stampa di destra viene descritto, ai tempi della scissione finiana, ostile e partigiano fino ai limiti del tradimento. A tal proposito, merita di essere inquadrata nella sua cornice politica perfino la scelta “tecnocratica” di Mario Monti, a prescindere dalla valutazione che di quella esperienza di governo (e poi politica, proprio con la “salita in politica” di Monti) si voglia dare. Bisogna infatti riconoscere che l’opzione del governo tecnico godeva di un credito larghissimo e pressoché unitario, perfino più ampio di quello che avrebbe ricevuto una decina d’anni dopo il governo di Draghi.

La destra arrivava infatti tramortita dal proprio fallimento, dal peso degli scandali, dalla frattura tossicissima e insanabile tra Berlusconi e il “Superministro” Tremonti, da un crollo nei consensi che avrebbe portato, per la prima volta, a una seria scomparsa dalle scene per molti mesi da parte di Berlusconi. La Lega era appena stata sconquassata dagli scandali di Umberto Bossi e preferì accomodarsi all’opposizione per la fase di traghettatore di Maroni, che avrebbe presto ceduto lo scettro di Pontida a Salvini.

Mentre per la coalizione del centrodestra il governo tecnico fu accolto come una occasione per leccarsi le ferite e provare a riorganizzarsi, le stesse opposizioni, e in particolare Bersani, preferirono evitare le elezioni per non assumersi le gravosissime responsabilità della gestione di una fase finanziaria catastrofica. Il Paese era preoccupato e piegato dalla crisi, senza più alcuna fiducia nella politica e in esso montava il sentimento anti-casta; gli ambienti confindustriali invocavano un governo autorevole per “fare presto”, come da storica prima pagina del Sole 24Ore.

In questo quadro drammatico, solo in questo quadro, si inserirono le pressioni europee. Non c’era un’Italia salda, forte e unita, minacciata da un nemico esterno. Nessuno scommise sul fallimento dell’Italia. L’Italia stava fallendo per ragioni tutte interne alla sua politica e alla sua economia e di questo possibile fallimento tutti, all’esterno, cioè in tutte le cancellerie europee, iniziarono a preoccuparsi, per un possibile effetto valanga. In quella stagione di abdicazione della classe politica dal proprio ruolo e dalle proprie responsabilità, nonché di totale sfiducia interna ed esterna al Paese, il ruolo suppletivo e dunque particolarmente interventista del Presidente Napolitano fu inevitabile e reclamato. Grottesco è poi che a parlare di “golpe” sia stata quella stessa parte politica berlusconiana che si unì alla delegazione che implorò Napolitano di accettare un secondo mandato all’età di 88 anni, contro ogni sua dichiarazione e volontà, acclamato come un padre dalla Patria dagli stessi parlamentari che severamente criticò nel suo storico discorso di re-insediamento.

Berlusconi commentò asserendo che era il miglior discorso politico che aveva mai ascoltato, prima che la condanna definitiva del 2013, il mancato regalo della grazia e il frustrato declino di Forza Italia trasformassero Napolitano nel primo “golpista” della storia riportato al potere dalla stessa vittima del “golpe”.

Il Napolitano interventista non fu altro che il supplente di una classe politica ignobilmente irresponsabile e manchevole. Il Napolitano migliorista non fu altro che il principale dirigente del PCI ad accorgersi della insostenibile anti-storicità del partito berlingueriano. Per il resto c’era la realtà e il compito politico di governarla, a cui la cultura migliorista spinse Napolitano sempre, prima e dopo l’ascesa al Quirinale, nel governo del partito e dell’Italia, a ricette e scommesse “anti-peggioriste”.