dito medio iran grande

È facile determinare contro chi sono dirette le proteste generali in corso da più di due mesi in Iran: la repubblica islamica guidata dagli ayatollah. Da questo punto di vista gli eventi di questi mesi ricordano le primavere arabe, le sollevazioni popolari scoppiate nel 2010 contro i regimi autoritari e repressivi al potere in molti paesi del Nordafrica e del Medio oriente. Come allora, oggi a sfidare il regime teocratico – non solo a Teheran ma ormai anche nelle province e città più lontane – sono quasi sempre giovani e giovanissimi, e le proteste sono l’esito di spontanee aggregazioni, prive di leadership e pianificazione, spesso avviate nella “clandestinità democratica” del web, delle chat e dei social media.

Almeno un aspetto, tuttavia, sembra differenziare la protesta iraniana da quelle arabe, rendendola un caso forse senza precedenti in Medio Oriente e nel mondo islamico. Riguarda non tanto il “chi” ma il “cosa”, l’oggetto della contestazione. Quella iraniana infatti non è soltanto una rivolta per liberarsi da una dittatura, bensì un’aperta contestazione della legge islamica su cui la teocrazia iraniana è fondata.

Il bersaglio simbolico della protesta, non a caso, è il chador, o hijab, il velo islamico obbligatorio per le donne, emblema religioso della loro condizione di oppressione, sottomissione e inferiorità giuridica e sociale rispetto agli uomini. Ma l’obbligo del velo, e l’organizzazione che ne garantisce il rispetto – la temuta Gash-e-Ershad, la “polizia morale” che presidia i luoghi pubblici e che ha arrestato Mahsa Amini per non averlo correttamente indossato – sono solo le manifestazioni più esteriori della prigione normativa e giudiziaria in cui sono rinchiuse le cittadine della repubblica islamica, e di conseguenza è rinchiusa l’intera società persiana.

Per capire meglio di cosa stiamo parlando, ricordiamone qualche altro esempio, consultando l’ultimo rapporto delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani in Iran. Diritto civile: una donna iraniana, per sposarsi, deve richiedere il permesso del padre o del nonno paterno. Il matrimonio con uomini di religione non mussulmana è illegale, quello con stranieri necessita di permesso governativo. L’età minima in cui è consentito il matrimonio è di 13 anni, o anche meno se c’è il consenso paterno o giudiziario (e i casi di spose bambine sono piuttosto diffusi: 13.054 tra il 2018 e il 2019, agevolati dalla possibilità per le banche di erogare mutui a sostengo di matrimoni anche a quelle età). Il marito esercita poi, secondo la legge, una totale autorità sulla moglie: può impedirle di accettare un lavoro che considera incompatibile con gli interessi e il decoro familiare; può negarle il permesso di viaggiare all’estero. Il diritto al divorzio per le donne è di fatto negato o accessibile solo in casi limitati: nel caso di violenza domestica, solo quando riescono a provare che sia davvero diventata intollerabile.

Il grado di oppressione e arbitrio sale di intensità passando al diritto penale: la responsabilità penale è riconosciuta in base all’età della maturità sessuale a partire da 9 anni per le bambine, 15 per i maschi, per tutti i crimini secondo le definizioni islamiche di qisas (la legge del taglione) e hudud, le punizioni coraniche per determinati reati come la frusta per i rapporti extraconiugali. Anche i bambini possono essere puniti con la pena di morte. Il report definisce “allarmanti” casi di esecuzioni capitali di minori in anni recenti, incluse ragazzine vittime di matrimoni forzati e violenza domestica.

La giustizia penale iraniana discrimina tra uomini e donne per quanto riguarda la diya, il risarcimento economico per casi di reati “di sangue” previsto dalla legge islamica, prevedendo che l’importo nei casi di vittime donne sia la metà di quello per gli uomini. Nel 2019 è stato disposto, dopo interventi legislativi e una sentenza della Corte suprema, il pagamento della differenza a carico dello Stato ma, si legge nel report, “la discriminazione rimane”, così come sussiste l’effetto di esporre maggiormente le donne a violenze (perché “costano” comunque la metà, anche se il resto lo paga lo Stato).

In modo analogo, in molti procedimenti legali, la testimonianza di una donna è valutata la metà, in termini di valore probatorio, rispetto a quella di un uomo. È di solito richiesta la testimonianza di uomini oltre a quella di una donna. La testimonianza di due uomini vale quanto quella di un uomo e di due donne.
In Iran è dunque in corso, prima di tutto, una rivolta per abolire queste forme di oppressione giuridica e liberarsi – non ci sarebbe ragione di tenerle in vigore – in generale di tutte le restrizioni delle libertà politiche, economiche, di espressione istituite dalla legge islamica.

Per la teocrazia degli Ayatollah è una sfida esistenziale: qualsiasi concessione alle richieste di libertà dei manifestanti – a partire dall’abolizione del velo – rappresenterebbe una sconfessione di tutto il suo sistema ideologico e giuridico. Se l’impresa delle donne e degli uomini iraniani riuscirà, si tratterà quindi forse per il Medio Oriente e il mondo islamico di qualcosa di simile a una Rivoluzione francese: il passaggio spontaneo di uno dei suoi paesi più grandi ed influenti dal sistema di valori una società chiusa e tribale, fondata su un rigido e oppressivo diritto religioso, alla società aperta, fondata sui diritti dell’individuo.