fight grande

Cosa c’entra l’appello lanciato da Linkiesta per “una nuova alleanza riformista e liberaldemocratica” (1) con l’aspra battaglia in corso in +Europa? Se non tutto, molto, anzi moltissimo. Molto più della questione degli eventuali “contenuti” e delle priorità politiche comuni, tocca un punto, fastidioso per molti, quello delle regole dello stare insieme e degli statuti, cioè in breve dell’essere partito.

Se però, seguendo Gandhi, crediamo che «il fine è nei mezzi come l'albero è nel seme», non possiamo pensare di concepire un nuovo soggetto politico aggregativo delle forze riformatrici e liberaldemocratiche, che esso sia “federativo” o “unitario”, senza porci la questione delle regole del suo funzionamento, in altre parole della sua carta statutaria. E quindi, se, come sostiene Linkiesta, “compete ai veri leader, se sono veramente tali, l’onere di farsi promotori del salto di qualità necessario per riconoscere che poiché l’obbiettivo politico è comune, esso va perseguito agendo di comune intento”, questo non basta, cioè non basta che tre, quattro, cinque leader si mettano intorno ad un tavolo e “decidano”.

Un nuovo partito dei riformatori e liberaldemocratici ha bisogno, né più né meno di quanto ne abbia oggi bisogno +Europa, di regole che creino le condizioni della fiducia fra gli iscritti e militanti dei vari soggetti parti al processo comune, che sia esso unitario o federativo.

Il modello della Margherita o il federalismo di vertice

Se pensiamo ad un partito federativo, due sono le strade possibili. La prima è quella di un accordo di vertice, nel quale i vari leader definiscano di comune accordo il peso dei vari soggetti. Un po’, mutatis mutandis, come nella originaria Comunità europea dove a ciascun stato membro era stato attribuito un “peso” in termini di voto nel Consiglio (2).

Alcuni limiti di questa opzione sono evidenti. In un sistema maggioritario, le diverse forze federate possono ripartirsi in modo concordato e quindi, in via di principio, più equo le varie candidature. Al contrario, in un sistema politico dove vige, in parte o in toto, un sistema elettorale proporzionale con l’espressione di un voto di preferenza, il partito federato che ha più capacità di mobilitazione di tipo “capillare” è ovviamente avvantaggiato. L’effetto naturalmente “disgregante” di un sistema proporzionale è alla base del fallimento dell’esperienza della Rosa nel Pugno, dove a portare i voti erano soprattutto i radicali (come dimostrato anche in elezioni successive), ma a prendere le preferenze erano quasi esclusivamente i socialisti.

Se il federalismo di vertice consente di andare oltre una mera alleanza elettorale e di essere anche il luogo, attraverso un lavoro di mediazione fra i vari leader, di definizione di priorità politiche comuni – ciascun leader rispondendo poi dei compromessi raggiunti di fronte agli organi statutari del proprio partito – è tuttavia privo di una dinamica di confronto e quindi di elaborazione politica diffusa e condivisa fra tutti gli iscritti. Questa mancanza si manifesta poi in tutta la sua problematicità nel momento centrale della vita di un soggetto politico, quello della celebrazione del momento statutario chiave: il congresso. In questo rischia infatti di prevalere lo scontro non tra opinioni e posizioni individuali ma bensì tra posizioni di vari gruppi di delegati, ciascuno dei quali si richiama fedelmente alla posizione assunta dal proprio leader, con conseguenti alleanze di circostanza.

Per la grande diversità della vita statutaria degli eventuali soggetti “federandi” – Azione, Italia Viva, Base Italia, +Europa, più una serie di associazioni minori – in un soggetto comune e il peso dei loro rispettivi leader, il modello dell’accordo di vertice sarebbe ovviamente quello più comodo perché più facilmente avviabile. Nel medio termine, si scontrerebbe però con la capacità (o meno) di convivenza fra le personalità molto forti dei vari leader. Ma il limite principale di un tale accordo, pur anche se concepito in una configurazione non solamente elettorale (3), sarebbe senza altro il suo carattere “sommatorio” e l’assenza di dinamica trascendente. In poche parole, la sua novità sarebbe molto relativa e di conseguenza il suo appeal politico-elettorale e la capacità di innescare movimenti politici reali al di sotto del vertice rischierebbe di essere assai limitato.

Il modello federale o la condivisione di sovranità

L’altra strada è sempre, mutatis mutandis, quella dell’Unione europea dopo il Trattato di Lisbona e l’introduzione del sistema di voto alla doppia maggioranza (4). È, in sostanza, il modello che il “gruppo dei saggi” (5) aveva tentato di proporre, del tutto inutilmente, nella primavera 2019. Contrariamente agli stati dove esistono anagrafi incontestabili, la questione del conteggio del numero degli “abitanti” di ciascun partito e cioè degli iscritti è delicata quanto centrale. Si pone in effetti il problema della verificabilità del loro numero, nonché della loro “equivalenza”, cioè della reale commensurabilità delle rispettive quote di iscrizione e delle condizioni e modalità di affiliazione e reclutamento degli iscritti. Problema non di poco conto e di difficile risoluzione senza una procedura federale di tesseramento, che consenta di fissare una identica quota di iscrizione sia al soggetto federato che al soggetto federativo (6) nonché di verificare la tracciabilità dei pagamenti e l’effettiva volontà di ciascun iscritto.

Accanto a regole e procedure che possono apparire complesse, questo modello ha il vantaggio o lo svantaggio, a seconda dei punti di vista, di consentire a ciascun soggetto federato di proseguire una propria e reale vita politica autonoma, seppur limitata dall’appartenenza al soggetto federativo. Questo modello consente di implementare una vita statutaria piena con istituzioni federali esecutive e deliberanti (segretario, tesoriere, congresso, assemblea nazionale, direzione nazionale, …), proprio perché è fondato su una rinuncia da parte di ciascun soggetto federato a una parte della propria sovranità e implica per tutti una forte maturità, una capacità di coniugare le proprie priorità politiche e i propri interessi con le priorità politiche del soggetto federale. Sicuramente ha, contrariamente al modello precedente, il pregio di rappresentare una novità politica sostanziale.

Il modello unitario

Partire dall’esperienza del PD, il partito che ha probabilmente lo statuto tra i più democratici (o meno anti-democratici) nel panorama politico italiano può aiutarci a capire cosa potrebbe essere un processo unitario per le attuali forze politiche liberaldemocratiche e riformatrici italiane.

Il PD che è il prodotto della fusione di due partiti, il PDS e la Margherita (7), ha inserito nei propri regolamenti congressuali una serie di norme di tutela contro possibili scalate interne ed esterne. In particolare ha stabilito che il numero dei delegati al congresso sia stabilito sulla base del numero degli iscritti nei due anni antecedenti all’anno di svolgimento del congresso, e ha introdotto un criterio di ponderazione del numero di delegati in base al risultato elettorale nelle diverse realtà territoriale. Se queste norme hanno dimostrato di funzionare bene nell’impedire scalate esterne, hanno però mostrato un grosso limite, quello di avere in qualche modo regolamentato la lotta fra le correnti (8) a scapito del rafforzamento del ruolo dell’iscritto singolo.

Nel PD poi la capacità espansiva del partito nella società e nell’opinione pubblica è affidata a un meccanismo, quello delle primarie aperte per l’elezione del segretario, che ha un indubbio effetto mobilitante e legittimante, ma effetti comunque limitati nella vita del partito.

Dall’esperienza del PD un soggetto liberaldemocratico potrebbe utilmente recuperare e riadattare alcune norme di tutela quali la continuità (biennale) dell’iscrizione e la ponderazione in funzione del risultato elettorale nelle diverse regioni, ponderazione che potrebbe essere opportunamente sostituta o accompagnata nel caso di un progetto comune che coinvolga Italia Viva, Azione, Base e +Europa, dal numero di contribuenti al 2 per mille (9). Ma occorrerebbe in ogni caso individuare le norme che possano rafforzare la peculiarità e la singolarità dell’iscrizione, come forma di partecipazione attiva di ognuno alla vita del partito, o non di reclutamento passivo di masse anonime di “tesserati”, per regolare i rapporti di potere tra le correnti.

Ed è qui che la riflessione sulla realtà statutaria di un futuro soggetto politico comune alle varie anime della galassia riformatrice e liberaldemocratica italiana si congiunge con il dibattito in corso in +Europa: aspro ma anche segno di vitalità e, secondo me, di crescita (posto che anche le crisi di crescita possono rivelarsi fatali).

Per riassumerla in breve, la questione è questa: per il prossimo Congresso, come anche era avvenuto per il precedente, il numero degli iscritti “dell’ultima ora” è esploso nei giorni immediatamente precedenti la scadenza. Tre iscritti su quattro non erano iscritti a + Europa nell’anno precedente, e due iscritti su tre sono totalmente nuovi, cioè non sono mai stati iscritti a +Europa in precedenza. Oltre a ciò, oltre il 40% delle iscrizioni non sono state versate individualmente dall’iscritto, ma sono arrivate con versamenti cumulativi.

Nel caso di +Europa, dal punto di vista formale, si poteva ritenere, che lo Statuto fosse chiaro e che le iscrizioni non potessero in nessun modo essere raccolte e trasmesse in modalità collettiva, ma dovessero essere espressione della reale ed individuale manifestazione della volontà del singolo. Lasciando da parte le questioni formali e giuridiche su quanto è accaduto, al fine di evitare altri contenziosi in futuro e per ristabilire la fiducia di tutti e fra tutti, è senz’altro necessario precisare nello Statuto le modalità precise dell’iscrizione. L’emendamento proposto da Irene Abigail Piccinini rispetto ai criteri di unicità e tracciabilità dei versamenti è da questo punto di vista ineccepibile (10). Cosi come sarebbe molto opportuno introdurre un criterio di continuità nell’appartenenza al partito almeno equivalente alla sua natura biennale (11). Se questi cambiamenti possono certamente aiutare ad evitare alcune derive, non bastano a garantire che +Europa (o qualunque altro partito) sia davvero un soggetto politico fatto di persone libere.

La questione degli iscritti, come dimostra il caso di +Europa, ma il discorso vale in generale, è tutta imperniata sulla “qualità” degli stessi. Non parlo della qualità della persona che si iscrive o viene iscritta. Ma della qualità del processo politico interno, cioè del sistema di incentivi e disincentivi, con cui gli iscritti sono riconosciuti e promossi, acquistano un ruolo effettivo e determinano la selezione delle scelte politiche e della classe dirigente.

Per innescare un processo virtuoso in termini qualitativi non c’è alternativa ad un aumento del prezzo del ticket d’entrata, cioè della quota di iscrizione (12). Proposta questa considerata da molti come una discriminante, come una barriera al coinvolgimento dei più nelle iniziative e nella vita “istituzionale” di +Europa. Queste due visioni contrapposte rimandano all’opposizione classica tra i concetti di uguaglianza e di libertà. Personalmente, credo con Popper che la libertà sia più importante della uguaglianza; che il tentativo di attuare l’uguaglianza in termini puramente “aritmetici” sia un pregiudizio della libertà, perché «che se va perduta la libertà tra non liberi non c’è nemmeno uguaglianza» (13).

Non mi convince neanche l’argomento secondo il quale una quota di iscrizione bassa favorirebbe il coinvolgimento dei più. Ne è una riprova del resto l’attuale numero assai ridotto degli iscritti a +Europa. Come non mi sembra che la “qualità” di iscritto sia mai stata un requisito obbligatorio per partecipare alle iniziative politiche di +Europa. Le vie del coinvolgimento sono del resto, molteplici: dal voto alle elezioni al contributo del 2 per mille, dalla partecipazione alle manifestazioni all’organizzazioni delle stesse, dal contributo finanziario fino all’iscrizione a tutti gli effetti (14).

Se dopo l’uscita di Centro Democratico e di Radicali Italiani dal progetto federativo iniziale di +Europa, l’unica strada rimasta di fatto aperta a +Europa è stata quella “unitaria”, si tratta di uno scenario tutt’altro che compiuto, che va perfezionato e rafforzato, per fare dello statuto di +Europa un modello di statuto moderno e aperto. Anche, perché visto la “giovinezza” di tutti i possibili partiti “federandi” in un progetto di partito comune dei riformatori e liberaldemocratici, oltre all’ipotesi di partito federativo potrebbe essere utilmente valutata l’ipotesi di un partito ex novo e unitario. Se queste riflessioni teoriche potranno aver qualche utilità nella pratica, cioè nella vita reale dei partiti politici riformatori e liberaldemocratici rimane un interrogativo al quale è impossibile dare una risposta.

Note

1. https://www.linkiesta.it/2021/02/riformisti-alleanza-italia/
2. Fra i sei paesi fondatori, la ripartizione era: Germania, Francia e Italia 10 voti; Paesi Bassi e Belgio 5; Lussemburgo 2;
3. Con i rischi di andare contro una “legge” della politica che ci insegna che la somma dei consensi raccolti da tale alleanza rischia di essere inferiore alla somma dei consensi che sarebbero stati raccolti da ciascun soggetto separatamente.
4. Maggioranza degli stati, maggioranza della popolazione.
5. http://www.leuropeen.eu/2018/05/28/progetto-di-statuto-di-europa-proposta-del-comitato-dei-saggi/
6. La quota complessiva (comprensiva della quota al soggetto federativo e di quella al soggetto federato) viene versata alla Tesoreria federale che trasferisce la parte corrispondente al soggetto federato, su base dell’indicazione fornita dall’iscritto sul modulo di iscrizione;
7. La Margherita nasce a sua volta dal raggruppamento nel 2000 di varie forze politiche (PPI, Rinnovamento italiano, UDEUR, i Democratici)
8. Emblematica della pregnanza delle correnti nel PD, la quasi perfetta alternanza alla segreteria di membri dei due filoni fondatori: Walter Veltroni (PCI, PDS), Dario Franceschini (DC), Pier Luigi Bersani (PCI), Guglielmo Epifani (PSI poi PDS), Matteo Renzi (PPI), Maurizio Martina, Nicola Zingaretti (DS), Enrico Letta (DC, PPI)
9. Due per mille: Dichiarazioni 2020 – redditi 2019. Azione 29.734; Italia Viva 45.223; +Europa 41.188; Base non gode al momento del due per mille.
10. “Si consegue la qualità di Associato con il pagamento della quota di iscrizione annuale, che deve essere versata individualmente da ciascun Associato, essendo escluse le iscrizioni collettive. Si ritengono collettive le iscrizioni nel caso in cui esse abbiano condiviso mezzi e canali di pagamento, nonché circostanze di tempo e di luogo – medesimo IP per i pagamenti elettronici, medesimo ufficio postale per i pagamenti, anche in successione, con bollettino di conto corrente – in base alle quali i versamenti, sia pure singoli e non cumulativi, risultino realizzati per il tramite di un solo operatore e non personalmente da ciascun iscritto.”
11. “Il diritto di voto attivo è prerogativa di chi è iscritto a +Europa per l’anno in cui si svolge il congresso nonché l’anno precedente”.
12. 120 euro all’anno, 10 euro al mese. In una ipotesi di federazione, la metà di questi soldi sarebbe riversata dal partito federale al partito federato.
13. K. R. Popper, La ricerca non ha fine: autobiografia intellettuale, 1974
14. Con il limite di introdurre un ulteriore elemento di complessità, un’altra proposta potrebbe essere quella di istituire due tipi di iscrizione. L’iscritto (con una quota di 60 euro) avrebbe diritto di voto attivo nel quadro regionale (elezione degli organi regionali, mozioni di attinenza regionale), il secondo, l’azionista (con una quota di 120 euro) avrebbe il diritto di voto attivo e passivo sia a livello regionale che nazionale, ivi compreso quindi l’elezione dei delegati al congresso.