big data grande

È passata quasi sotto silenzio la notizia che la Casaleggio srl avrebbe profilato, in occasione delle elezioni 2013 e 2014 elettori e attivisti del Movimento, con uno scambio tra diritto di partecipazione politica (“Diventa attivista del M5S!) e cessione dei dati personali tramite un app Facebook, che rendeva possibile per gli utenti la diffusione dei contenuti del M5S.

Come altri hanno notato, questo scandalo potrebbe essere considerato, sia per i metodi sia per l’intento, simile a quello più noto di Cambridge Analytica. Tuttavia il fulcro essenziale che queste due vicende mettono in luce è una nuova forma – da parte dei partiti, dei politici e degli imprenditori dei dati – di concepire la politica. Una forma che è nuova perché replica una atavica ambizione del potere, quella di controllare le menti dei sudditi, con strumenti sofisticati disponibili solo da pochissimi anni.

Lo scandalo di Cambridge Analytica aveva rivelato che i dati raccolti attraverso una app di Facebook – che era un test di tipizzazione della personalità (quello dei “Big-five personality traits”) – venivano, in realtà, impiegati a fini politici ed elettorali per la profilazione dei vari elettori, per influenzarli, quindi, in modo mirato sulla base della loro personalità. Ecco un nuovo determinismo della politica: la politica dei tipi psicologici.

La personalità, il tipo dell’elettore, viene considerato una variabile imprescindibile nel determinare le sue scelte politiche; in poche parole, l’elettore non è visto come libero o razionale, ma come costretto da sue caratteristiche contingenti e, pertanto, anche facilmente influenzabile da specifiche suggestioni politiche.

Popper identificava come “psicologismo” un approccio che individuava deterministicamente come principale causa dei fenomeni sociali la struttura psicologica degli individui; analogamente il filosofo austriaco vedeva un’altra forma di determinismo: lo “storicismo” politico nella concezione marxiana del “materialismo”, da lui definita come uno “storicismo economico”. Marx considerava tutte le condizioni politiche e giuridiche come sovrastruttura della struttura economica di base della società capitalista; le “idee” politiche sono, per Marx, parte della sovrastruttura e determinate in gran parte dalla strutture economiche della società, cioè dai rapporti di produzione.

Sia nella concezione dello psicologismo che in quella dello storicismo economico il “regno della libertà” viene miseramente soppiantato dal “regno della necessità”. Entrambe le impostazioni, come nota Popper, nell’agone filosofico escludono la possibilità di falsificazione, mettendosi così al riparo da critiche scientifiche, e ridicolizzano le confutazioni degli oppositori: per lo psicoanalista le obiezioni sono dovute alle repressioni dei critici, per il marxista i dissensi sono dovuti ai pregiudizi di classe dei contestatori. In questo modo si profila anche una sorta di determinismo del dialogo.

Tuttavia, i due scandali precedentemente menzionati sono prova del fatto che il progetto di alcuni movimenti e operatori politici contemporanei è riportarci davvero in una realtà “necessitata”, grazie a una macchina digitale. Non importa neppure che sul piano dell’analisi questi gruppi politici credano davvero a una filosofia della storia deterministica. Putin non è un allievo di Marx. Basta che credano fermamente di potere dare questo indirizzo al corso degli eventi, per trarne vantaggio.

Secondo la filosofia di Cambridge Analytica, ad alcuni tipi di personalità corrispondono determinate idee politiche, o la propensione a rispondere a determinate suggestioni politiche. L’obiettivo dei partiti non è, dunque, quello di vincere convincendo, cioè rendendo efficaci e cercando di diffondere le opinioni, con il sostegno della forza delle idee in determinati valori o fini generali. L’obiettivo è quello di incassare una certa quantità di consenso intercettando i sentimenti di alcune categorie di elettori, preventivamente “categorizzati”. I partiti, quindi, si prefiggono di trovare i tipi di elettori a cui deterministicamente si attaglino le loro idee o che opportunamente condizionati, con strategie quasi su misura, rispondano positivamente a queste idee; in alternativa, i partiti manipolano e riorientano le proprie stesse idee, perché vengano efficacemente fruibili dal maggior numero di tipi elettorali. Salvini ha fatto qualcosa di questo genere, trasformando in un partito ideologicamente mercatista e autonomista (almeno sul piano del racconto) in un partito protezionista e nazionalista – e ha fatto bingo.

L’uso dei social network e, in particolare, la facilità nella categorizzazione delle persone sui social network – secondo le loro abitudini di consumo, i loro “mi piace”, il loro coinvolgimento nei vari gruppi o segmenti di aggregazione social – sta riproponendo strutturalmente nella politica un’impostazione psicologicamente deterministica. Questo è reso in primo luogo possibile, oltre che dalla spregiudicatezza degli operatori politici, dalla disponibilità di saperi e competenze, strumenti e piattaforme, capaci di ingegnerizzare in modo scientifico queste strategie di condizionamento. La determinante psicologica, in politica, cresce di peso in misura pari alla manipolabilità psicologica degli elettori, ma nello stesso tempo la manipolabilità degli elettori, oltre che nella forza oggettiva di strumenti di condizionamento un tempo non disponibili, deriva dall’assenza di contromisure politiche e mediatiche – in primo luogo “istituzionali”, ma anche culturali – a questo processo.

Dopo il grande trionfo liberale degli anni ’90, dove sembrava che, ormai, l’importanza delle idee, del “regno delle libertà”, avesse prevalso su ogni diversa concezione della politica e della storia, nel terzo millennio si sono imposti strumenti potenzialmente efficacissimi per chi intendeva lavorare a strategie di potere deterministiche, cioè tendenzialmente totalitarie.
A partire dagli anni ’10 del 2000 i paladini del regno della necessità (seppur mutato, seppur totalmente diverso da quello novecentesco) hanno iniziato ad usare in politica massivamente questi strumenti per creare una funesta trappola junghiana con cui tipizzare, a fini elettorali, gran parte della popolazione occidentale. Ormai, come in qualche modo notava anche Fukuyama, la politica moderna si sta trasformando in una politica delle tribù: gli individui come agenti e partecipanti politici si stanno ormai liquefacendo.

Una questione interessante degli sviluppi politici internazionali contemporanei è che l’ideale sovranista ha acquisito nel suo diffondersi una dimensione e un orizzonte transnazionale: il movimento della cosiddetta “alt-right”, per esempio, che ha come principali piattaforme “reddit” o “4chan”, riesce a riunire su questi social aderenti da tutto il mondo, nonostante sue principali caratteristiche siano, al contrario, il nazionalismo e il protezionismo.

Spesso il collante politico di questi movimenti è proprio un percepito disagio: che può essere sociale, economico o culturale, ma che è in primo luogo psicologico. L’alt-right vede, sovente, tra i suoi aderenti-social giovani emarginati dalle rispettive comunità sociali, che si sentono nella vita reale isolati e esclusi. Potremmo dire che questo “tribuismo psicologico” dei social (la tribù degli impauriti, degli insoddisfatti, degli incazzati…) li convince che, essendo trattati come “strani” dalla società, sono in realtà effettivamente tali. Quindi possono essere determinati, cioè condizionati, a esprimere questa “stranezza”, insieme a altri come loro, partecipanti della loro comunità psicologica, che diventa anche immediatamente politica.

Questa concezione, sobillata da quello che potremmo definire come partito sovranista transnazionale che fa capo a Putin e Bannon, ha come obiettivo la politica dell’anti-individuo, la politica delle comunità ( siano esse psicologiche, nazionali o razziali): è la concezione dell’annientamento del singolo all’interno dei meccanismi di necessità non già della sua classe sociale - come volevano i marxisti - ma, a questo punto, del suo tipo psicologico o delle sue caratteristiche psico-sociali.

Il neo-nazionalismo italiano non è fatto di conservatori devoti al tricolore e alla storia patria – basta vederne il Capitano – ma in misura maggioritaria da italiani bianchi terrorizzati dalla perdita di centralità politica. È un nazionalismo, appunto, non ideologico, ma psicologico. Altrettanto psicologico (né storico, né culturale, né religioso) è il richiamo alla Croce, al rosario o al presepe come segno distintivo o amuleto.

I deterministi della politica, sconfitti dalla guerra fredda, attraverso gli algoritmi di profilazione, attraverso le sottrazioni di dati, attraverso campagne milionarie di condizionamento digitale, sono tornati con strumenti estremamente più fini ad imporre la loro concezione politica e stanno tentando di intrappolare la “testa” dell’Occidente nelle sue ossessioni e nelle sue psicosi sadomasochistiche. Tuttavia, come notava Popper, il determinismo, la scientificità del marxismo furono sconfessate dallo sviluppo politico del marxismo stesso: fu proprio l’ideale comunista che, contraddicendo anche le previsioni deterministiche del suo profeta, riuscì a conquistare e a cambiare la società di più di un sesto del mondo, “innamorando” anche i cuori e le menti di molti dei borghesi intellettuali che avrebbero dovuto, in realtà, essere determinati dalla loro classe ad avere altre idee politiche.

Per altro verso, è stata la forza di un’idea di libertà e di democrazia a portare anti-deterministicamente gli ungheresi alla rivolta nel 1956 e gran parte dei “cittadini” dell’Unione Sovietica alle rivoluzioni del 1989. I ragazzi di Hong Kong, parimenti, come notava questo agosto Bernard Henri Levy, stanno dimostrando ai deterministi e agli storicisti la voglia di libertà e di democrazia di un popolo che, a parer loro, sarebbe “immaturo” o “culturalmente” estraneo alla democrazia.

Quindi, perché le democrazie occidentali sfuggano al cappio putiniano che tenta di soffocarle, è necessario che i loro cittadini si riscoprano individui e non comunità o agglomerati deterministici, che non restino funestamente intrappolati nelle proprie teste, nel ridondante ripetersi dei contenuti della rete bannoniana, idiotamente referenziale e refrattaria a qualsiasi forma di dialogo. Per ritrovare l’ironica forza della storia che smentisce lo storicismo, della realtà che smaschera il determinismo la risposta è nella volontà, cioè nella libertà, che prevale sulla necessità.

Come colui che, secondo i test psicologici ed altre diverse determinazioni lombrosiane, era destinato ad essere un criminale può decidere di non esserlo o di non restarlo - perché chi scrive crede anche alla funzione riabilitativa della pena - così colui che nelle profilazioni della Casaleggio Associati o di Cambridge Analytica risulta destinato a essere elettore di un dato partito, o suggestionato da certe divulgazioni demagogiche, deve essere messo in grado di poter decidere e ragionare liberamente sulle proprie scelte politiche individuali.

Per riattivare questa volontà individuale non basta il volontarismo personale, né è sufficiente un’educazione, pure indispensabile, al vaglio razionale, alla riflessione, al pensiero critico: servono anche condizioni di possibilità esterne. Nell’ultimo periodo della sua vita Popper denunciava nella “cattiva maestra televisione”, cioè in un sistema di comunicazione unidirezionale e condizionante, uno dei massimi pericoli per la libertà politica. La sua denuncia sembrava, anche ai liberali, l’espressione di un’anacronistica idiosincrasia per i media di massa, ma forse in qualche modo anticipava profeticamente i rischi dell’era digitale, in cui la disponibilità praticamente illimitata di fonti e strumenti di informazione non innesca solo processi di appropriazione culturale, ma anche, e forse in primo luogo, di alienazione psicologica.

La resistenza, per così dire “illuministica”, alla politica di manipolazione psicologica, passa per una seria critica dei media di massa. Non dal luddismo apocalittico, non dall’illusione del ritorno a un mondo pre-digitale, non dalla tentazione funesta di un “Contro Grande Fratello” politico per arginare i padroni e gli impresari dei Big Data (che sono peraltro in larga misura politici e perfino “statali”). Servono soluzioni originali, ma soluzioni, perché il problema evidentemente c’è.