L’inchiesta su Open e sulle compravendite immobiliari di Matteo Renzi segna un ulteriore salto di qualità nella cultura del “contrasto” ai rapporti tra gli affari e la politica. Un salto di qualità negativo, annunciato da una legislazione programmaticamente antipolitica, che rende ope legis qualunque finanziamento dichiarato e lecito di per sé sospetto, per il consustanziale traffico di influenze che, nell’ipotesi pregiudizialmente colpevolista, lega i finanziatori e i finanziati, gli interessi dei partiti a ricevere contributi e gli interessi di chi li eroga a influire sulle scelte del decisore pubblico.

Questo – in combinato disposto con l’abolizione di qualunque forma di finanziamento pubblico diretto alla politica e con limiti letteralmente incredibili a quello privato – ha trasformato il fundraising politico in una attività ormai ufficialmente, anzi “ontologicamente”, criminale e le procure nelle titolari designate di un’azione penale obbligatoriamente antipolitica.

Per la verità, bisogna ammettere che questo processo, avviato con la legge Severino e l’introduzione del reato di “traffico di influenze”, è stato completato nella scorsa legislatura mentre Renzi – oggi vittima di questa tagliola – era già saldamente ai vertici del PD, cioè della principale forza di governo e completato in questa con la legge cosiddetta “spazza-corrotti”. Si contano sulle dita di una mano i politici che hanno avuto il coraggio di contrastare questa deriva nichilista – e nel conto Renzi non c’è.

Rispetto a Mani Pulite il programma che sta alla base di questa “azione di contrasto”, che unisce giornali, procure e centrali politiche populiste (e di cui un Parlamento vile in tre legislature ha offerto l’opportuna cornice normativa), è più ambiziosamente totalitario, perché non mira a dimostrare che tutti i politici rubano e si servono impropriamente del proprio potere per ottenere vantaggi pubblici e privati, ma che tutta la politica è in sé una forma di intermediazione parassitaria di interessi particolari, quindi una sorta meccanismo di scambio “costituzionalmente” illecito, che va raddrizzato cambiando, a forza di botte, i connotati della vecchia democrazia rappresentativa. In questo quadro, i quattrini sono in sé lo sterco del diavolo, non il mezzo, ma la prova della corruzione implicita nell’attività politica e nella vita, anche privata, dei politici.

D’altra parte, è tutto perfettamente coerente con la parabola cultural-politica di un Paese che si è votato alla promessa di una democrazia no-cost e che ha intronato plebiscitariamente un partito che aveva, come solo programma concreto, quello di restituire parte dei quattrini che i suoi eletti avrebbero guadagnato nelle istituzioni e poi di sfasciare quelle stesse istituzioni, sfollandone con la ramazza la gran parte dei figuranti e trasformandole in un bivacco di manipoli digitali e aziendali.

Il contrappasso spettacolare di questo autodafè giudiziario della democrazia sarà il trionfo della Lega, cioè del partito economicamente più compromesso col malaffare e meglio (cioè peggio) rappresentato da emissari e trafficoni che tra i gioielli della Tanzania e le forniture di gas con sovrapprezzo negoziate al Metropol, sembrerebbero il bersaglio perfetto del tagliagolismo politico-giudiziario, e invece ne saranno gli usufruttuari, agli ordini dell’usufruttuario maximo, Salvini, cui i pieni poteri della giustizia regaleranno i pieni poteri politici, come ai bei tempi Di Pietro con Berlusconi.

Il moralismo politico è sempre destinato a finire nella palude della cattiva coscienza.

@carmelopalma