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Ho scoperto relativamente da poco che Tommaso Moro è il santo patrono dei politici, non so se tra chi frequenta le istituzioni vi sia maggiore consapevolezza.

Tommaso Moro si è fatto tagliare la testa pur di non venire meno a un principio e per non prestarsi a un atto di sottomissione: considerando la fine che in questo paese fanno i princìpi, e la propensione del ceto politico alla sottomissione, perlomeno intellettuale, ho qualche dubbio.

Abbiamo ancora nelle orecchie l’eco delle parole di Grillo al Circo Massimo. Al grande sdegno per le vergognose espressioni sull’autismo si unisce quello per le critiche ai poteri del Capo dello Stato. Su questo secondo aspetto, nell’unanime coro di protesta delle opposizioni si sono distinti esponenti di spicco di Forza Italia.  Non avevano evidentemente molto da dire neppure loro quando Berlusconi definiva i giudici come “persone mentalmente disturbate, antropologicamente diverse dal resto della razza umana”, minando alle radici lo stesso equilibrio tra i poteri. E dov’erano quando negli anni successivi il Cavaliere, alterno nei suoi ruoli di capo dell’opposizione e di governo toccava inaudite vette di “sguaiatezza” e di violenza nel conflitto con il Colle? Risposta: o sugli scranni del Parlamento o su una sedia da ministro, sempre allineati con quel leader tanto prodigo di vittorie e riconoscimenti personali.

Il problema della coerenza, s’intende, va oltre loro due e l’esempio che le riguarda, ma è rappresentativo del milieu nostrano. Di Grillo si diceva prima, lui è un vero campione nel dire, o fare, e poi dimenticare, quando serve addirittura capovolgere. Nel luglio 2011, governo Belusconi e spread a 339, scrisse una lettera a Napolitano paventando il prossimo default del Paese, quindi chiedendogli di nominare un nuovo primo ministro (tecnico) o, alternativamente, sciogliere le camere.

Oggi, a spread pressoché identico, ha altre preoccupazioni, e anziché invocare cambi di governo o termini anticipati di legislatura se la prende con gli autistici “che fanno esempi che non c’entrano un cazzo”. Lui se ne intende, in effetti. Thomas Eliot, per cui “in un attimo c’è il tempo per opinioni e revisioni che l’attimo dopo rivolterà” ne sarebbe stato orgoglioso.

Lo sarebbe stato pure di Salvini, che il 5 luglio 2005 nell’aula del Parlamento europeo, insieme a Borghezio e Speroni interruppe il discorso dell’allora Presidente della Repubblica Ciampi urlando: “Padania libera, Italia vaffanculo”. Oggi è il campione del sovranismo e dell’orgoglio di bandiera, anche se l’Italia la sta mandando affanculo comunque. Gli va tuttavia riconosciuto che su Euro e Unione Europea sta mantenendo inalterate le posizioni di allora.

Spostandoci da destra nell’emiciclo parlamentare è poi impossibile non pensare alle revisioni di Renzi, che nel 2012 sarebbe stato il primo rottamatore di se stesso (“chi rompe il giochino non può essere quello che lo riaggiusta, chi ha fallito a sinistra vada a casa”) e che con la promessa non mantenuta del 2016 (“se perdo il referendum lascio la politica”) lo è infine stato, almeno parzialmente. A differenza di tutti gli altri di cui si parla sopra - a cui in nulla, peraltro, si pensa di accomunarlo - Renzi ha nobilmente puntato sul riscatto di un Paese e di un popolo che da sempre si mostra consapevole dei propri limiti storici, a tratti quasi compiacendosene.

Lui ha provato a “cambiare verso”, e a mettere l’asticella in alto, con un’ambizione inedita: più che coraggiosa, direi a tratti visionaria. Gli è capitata la cosa più pericolosa che possa accadere a un politico: gli hanno creduto. E lui ha finito per commettere l’errore più tipico dei politici: confondere la fiducia con la fede. Chi ti dà la fede è pronto a perdonarti tutto, chi ti dà fiducia no.

Per questo il suo tradimento è stato ben più sentito e, in una società come la nostra, abituata al peggio e spesso pure a identificarcisi, più intollerabile: l’illusione, per così dire, di poter essere migliori di come siamo, o di come ci siamo rassegnati ad essere, a partire dal vertice stesso di una comunità. Che si promette finalmente serio, credibile. Non come quelli che affossano la riforma costituzionale perché “tanto se ne può fare un’altra in sei mesi”.

Venuto meno il sogno di essere meglio di come siamo è rimasta la rabbia, quella che alimenta la fiducia (o fede, questo lo vedremo presto) in Salvini e nei suoi epigoni: che la famosa asticella la tengono a terra, e se potessero anche sotto, così da non illudere nessuno. Nessuna illusione, nessuna ambizione.

Quel che è certo è che a prescindere da ogni lettura di parte il rapporto tra politica italiana e coerenza è perlomeno problematico. Se pensiamo alla storia degli altri paesi, almeno in Europa, non vengono in mente casi di così palese distanza tra detto e fatto, non detto e detto, non fatto e detto, impegni bruciati, giuramenti traditi.

C’è un motivo se siamo così, e forse serve a spiegare meglio anche il punto fino a cui ci siamo spinti. Una vecchia battuta, ascoltata da ragazzo, recitava che da noi “Moro è Aldo, non Tommaso”, ma è appunto una battuta. La Prima Repubblica ha certamente molte responsabilità, e io non penso affatto a quel periodo come a un tempo aureo. Neppure sotto il profilo della coerenza. Ma è indiscutibile che pur nelle enormi storture di un sistema poi collassato esisteva e resisteva in esso un autonomo senso dell’onore pubblico, che non promanava ancora necessariamente da contesti ed impulsi esterni (cito ad esempio quello della magistratura, ma oggi vale forse ancora di più per i media).

È evidente che abbiamo perso molti pezzi per strada. Si chiamino Tommaso, Aldo o in qualunque altro modo, l’idea di ridiscutere e promuovere nuovi principi di convivenza e permanenza in politica potrebbe essere uno sforzo interessante e concreto, certamente non un esercizio intellettualistico.