L'Association of South-East Asian Nations (ASEAN) desta sempre più interesse nel panorama internazionale, anche se le difficoltà al suo interno sono ancora moltissime. Se davvero a dicembre di quest'anno cadessero le residue barriere al libero scambio, la Cina si troverebbe a fare i conti con un temibile concorrente.

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Se fosse una singola nazione, sarebbe già la settima economia del pianeta (e la quarta entro il 2050). Negli ultimi quindici anni è cresciuta più dell'India e del Brasile, con un debito pubblico e un tasso di volatilità sui mercati notevolmente inferiori. Ha più abitanti dell'Unione Europea e del Nordamerica e la sua forza-lavoro è la terza maggiore al mondo. Uscita pressoché indenne dalla grande crisi internazionale del 2007, nel 2013 ha ricevuto più investimenti diretti esteri della Cina. Non è un caso, dunque, se sono sempre di più le imprese e gli investitori che guardano con interesse crescente ai mercati dei dieci Paesi facenti parte dell'Association of South-East Asian Nations (ASEAN).

Fondata nel 1967 con la Dichiarazione di Bangkok, con cui Thailandia, Malesia, Indonesia, Filippine e Singapore provarono a fare fronte comune contro il blocco ideologico comunista che dominava l'area, oggi l'ASEAN comprende molti di quei paesi cui in origine si contrapponeva - Vietnam, Laos, Cambogia, Birmania - oltre a Indonesia, Malesia, Filippine, Singapore, Thailandia e Brunei. Gli obiettivi dell'organizzazione sono la promozione della cooperazione e dell'assistenza reciproca fra gli Stati membri, l'accelerazione del loro progresso economico e culturale e il mantenimento della pace e della stabilità politica nella regione.

Anche se la parte del leone nell'economia orientale continua a farla la Cina, i tempi sembrano maturi perché anche le tigri asiatiche inizino a ruggire, soprattutto grazie alla creazione di un'area di libero scambio nel Sud-est asiatico. Un'idea che nacque nel 1992 con la costituzione dell'Asean Free Trade Area (AFTA), un accordo stipulato dai leader dei Paesi membri dell'organizzazione per diminuire gradualmente le tariffe doganali all'interno della regione fino a creare un mercato comune di libero scambio di beni, servizi, capitali e persone, non dissimile dal processo d'integrazione intrapreso nell'Unione Europea.

L'AFTA è stato rivisto in più occasioni nel corso degli anni e il mercato non è stato ancora interamente liberalizzato, con ripercussioni negative per gli scambi interni: basti pensare che dall'ASEAN parte il 7% delle esportazioni a livello mondiale, ma solo il 25% di queste è diretto verso i Paesi partner; meno della metà del peso del commercio interregionale nell'ambito del NAFTA o dell'Unione Europea.

Sinora i progressi dell'AFTA sono stati discontinui. I dazi sono ormai prossimi allo zero in molti settori tra Brunei, Indonesia, Malesia, Singapore e Thailandia, ma non ancora negli altri Paesi membri, senza contare che permangono barriere non tariffarie e limitazioni in materia di servizi e investimenti in tutta l'area. Il 31 dicembre del 2015 gli ostacoli al completamento del mercato unico dovrebbero essere interamente rimossi, ma è probabile che tale deadline finisca per subire ritardi significativi, com'è già successo più volte negli anni passati.

Inoltre, i diversi Paesi che compongono l'ASEAN sono caratterizzati da sistemi economici e stadi di sviluppo estremamente eterogenei. Basti pensare che il PIL pro capite di Singapore è circa trenta volte quello del Laos e più di cinquanta volte quello della Birmania, e che quello dell'Indonesia vale circa il 40% dell'intera regione, o che la differenza tra i redditi medi dei Paesi membri è pari a circa sette volte quella intercorrente tra i Paesi dell'UE. Una situazione che fatica a essere risolta in assenza di un vero mercato interno e che, per ora, ha sempre convinto i membri dell'ASEAN a non avventurarsi nella creazione di una moneta unica (e di una banca centrale), almeno fino a quando tali disparità non si saranno ridotte considerevolmente. Una scelta su cui, per ammissione degli stessi leader dell'ASEAN, hanno pesato anche le difficoltà dell'Eurozona.

Probabilmente anche a causa di squilibri economici così significativi, l'AFTA è stato spesso teatro di deroghe, rinvii e veti incrociati. Emblematico è il caso della Malesia, che ha invocato la teoria dell'infant industry per escludere dalla liberalizzazione la propria industria automobilistica, applicando dazi fino al 250%. Tale politica protezionistica, volta a contingentare le importazioni per facilitare lo sviluppo della produzione locale, è stata criticata a più riprese non solo dal FMI e dalla WTO, ma anche dagli stessi Paesi partner della Malesia. Tanto che nel 2005 la Thailandia minacciò a sua volta di rimandare la liberalizzazione dell'olio di palma, di cui la Malesia è il primo produttore.

Critiche ancora più feroci sono state mosse verso gli ultimi quattro Stati entrati a far parte dell'ASEAN (Laos, Vietnam, Birmania e Cambogia), ancora classificati come low income economies dall'International Bank for Reconstruction and Development dell'ONU e legittimati, pertanto, a misure protezionistiche su più del 70% dei beni e dei servizi prodotti al loro interno.

Gli squilibri di carattere economico, del resto, sono intimamente legati ad altrettanto evidenti problematiche politiche. Oltre a incomprensioni sulle politiche migratorie esterne e sulle frequenti accuse reciproche di violazione dei diritti umani nella gestione d'insurrezioni e proteste, un ruolo cruciale è rivestito dalle relazioni che i singoli Paesi membri intrattengono con la Cina. I diversi interessi commerciali dei vari Paesi e la gestione delle dispute territoriali nel Mar Cinese Meridionale, in particolare, hanno più volte fatto fallire tentativi di sintetizzare strategie politiche comuni.

Le Filippine, in particolare, hanno recentemente invocato una presa di posizione comune dei membri ASEAN contro l'espansionismo cinese, ma hanno ricevuto una risposta molto dura e chiara dalla Malesia, per bocca del ministero degli Esteri Anifah Aman: "Le Filippine sono libere di rilasciare tutte le dichiarazioni che vogliono, ed io le rispetto. Ma per noi, la posizione dell'Asean è voler dialogare con la Cina". Peggio delle divisioni europee in politica estera, insomma. La mancanza di univocità in questo campo, d'altronde, è un ostacolo insormontabile al compimento del passaggio dell'ASEAN a vera e propria Unione, impermeabile alle influenze esterne.

Un traguardo, quello dell'ASEAN politico, cui sembra poter contribuire in maniera determinante lo sviluppo dell'armonizzazione economica e del commercio interregionale: le sempre più frequenti delocalizzazioni di imprese multinazionali dalla Cina verso Laos, Cambogia e Vietnam, in questo senso, possono essere considerate un segnale positivo. Se poi l'AFTA dovesse essere realmente portato a compimento alla fine di quest'anno, i ruggiti delle tigri potrebbero davvero iniziare a mettere in discussione lo strapotere del Dragone rosso.