Le applicazioni della realtà virtuale aumentata nel mondo della stampa: un modo completamente diverso di intendere il giornalismo, dove la notizia non è più raccontata, ma vissuta direttamente. Un pericolo o un'opportunità?

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Una bambina canta. La sua voce è l'ultima melodia che ricorderai. Prima delle bombe, delle urla, degli spari. Prima di finire tra le vittime, in un campo profughi in territorio curdo. Ecco cosa accade a chi vive la guerra civile per le strade di Aleppo, o a chi guarda Project Syria.

Il documentario, infatti, inizia così. Con una voce infantile. Ed è stato girato da Nonny de la Peña, videomaker, giornalista del Newsweek e ricercatrice della University of Southern California, come uno dei pionieristici video di giornalismo immersivo: un documentario in realtà virtuale, durante il quale, grazie a tecnologie come Oculus Rift, lo spettatore diventa testimone, in presa diretta, dei fatti narrati.

"La realtà virtuale – ha spiegato De la Peña - cambierà il modo in cui sperimentiamo le notizie". E a crederlo non è solo la reporter, già autrice nel 2012 di Hunger in Los Angeles, suo primo esperimento di giornalismo "aumentato". Anche Spike Jonze, infatti, ha scelto tecniche simili per raccontare la Millions March di New York. Il video, realizzato con Chris Milk, è stato girato con una Steadycam e una telecamera a 360 gradi durante la manifestazione cittadina dello scorso 13 Dicembre, quando migliaia di persone sono scese in strada per protestare contro gli omicidi di ragazzi di colore per mano della polizia americana. I registi hanno seguito la reporter di Vice Alice Speri mentre camminava tra le persone, hanno filmato voci, facce, slogan, corse e dopo tre mesi hanno lanciato il video e una applicazione, VRSE, per guardarlo.

"Là, in mezzo ai fatti – ha raccontato Milk – ogni spettatore vive senza ego". Per questo, privato della propria realtà quotidiana, l'utente sperimenta la notizia con tutto se stesso, fisicamente, in completa empatia con chi l'ha vissuta per davvero, sulla propria pelle. Mai nessuna tecnologia ha prodotto lo stesso risultato, in termini tecnici o emotivi. "Né il cinema, né il teatro, neanche la letteratura – ha spiegato il regista al Guardian – hanno mai permesso di connettere allo stesso modo un individuo con un altro". Ecco perché Milk ha fondato una compagnia per produrre con Vice una serie di video immersivi ed ecco perché, racconta de la Peña, le persone impareranno a vivere fisicamente una notizia, come se fossero state là.

Fantasie? Scenari futuristici? Secondo il Nieman Lab – centro di ricerca sul giornalismo della Università di Harvard – no. Anzi, il giornalismo immersivo è inserito tra le previsioni del laboratorio per il 2015 e Juliette De Maeyer, docente dell'Università di Montreal, ha scritto: "La realtà virtuale non salverà il giornalismo, ma potrebbe almeno renderlo più divertente". Una conquista non da poco, in un mercato in cui calano le vendite e i più difficili da conquistare sembrano proprio i più giovani, che sarebbero pronti, magari, ad accettare una tecnica narrativa nuova.

Tuttavia, se Oculus Rift, in sostanza, ha riportato la realtà virtuale tra le tendenze più promettenti e Microsoft ha lanciato da poco HoloLens – occhiali in grado di aggiungere elementi virtuali alla realtà concreta – i problemi tecnici del giornalismo immersivo sembrano ancora numerosi e non facili da superare. Le tecniche attuali, ha infatti spiegato Nonny de la Peña, non sono ancora in grado di annullare la motion sickness, quella sensazione di mal di mare legata ai più usuali movimenti compiuti, però, in un ambiente "aumentato". "Quando hai un pubblico che può provare sensazioni fisiche – ha spiegato la videomaker a The Creators Project, piattaforma dedicata alla creatività - te ne devi prendere cura".

I problemi non sono solo fisici o tecnici, però. Il giornalismo immersivo, infatti, solleva anche questioni etiche. In che modo, per esempio, la realtà può essere conosciuta, si chiede Juliette De Maeyer? Come riesce un testimone a metabolizzarla? Siamo sicuri che basti l'impatto emotivo per comprenderla davvero? E in che modo cambia il ruolo del giornalista?

Se per de la Peña il compito di chi racconta non muta completamente – il lavoro del narratore consisterebbe comunque nella raccolta di documenti audio e video dalle fonti e nella capacità di assemblarli – più difficile sembra rispondere alla prima domanda.

Prendiamo, per esempio, la notizia della violenta uccisione di Muhad Kassasbe, il pilota giordano catturato e bruciato vivo, in una gabbia per animali, dalle milizie dell'Isis. Cosa significherebbe per uno spettatore guardare le immagini come se fosse là davanti? Chi ci sarebbe con lui a testimoniare? Un terrorista? Come sarebbe lo scenario? Non potrebbe esserci il rischio di agire in modo favorevole agli scopi degli assassini? Ha scritto, per esempio, J.M. Berger, esperto di jihadismo: "Quando l'Isis pubblicizza le sue azioni, il suo obiettivo è far infuriare e suscitare orrore nei suoi nemici, creare divisioni all'interno della coalizione che lo combatte e coinvolgere sempre più paesi nella guerra". In sostanza, il giornalismo immersivo potrebbe, con più forza e in maniera più determinante, suscitare un nuovo dibattito intorno all'opportunità o meno di mostrare la realtà, quando essa è particolarmente brutale.

Di fronte ai recenti fatti di cronaca internazionale, i pareri dei più noti reporter sono stati molto diversi tra loro, ed è emersa una domanda alla quale non sembra esistere, ad oggi, una risposta. La scrive Andy Carvin, di reported.ly: quanti video di violenza e sofferenza può un uomo sopportare in un giorno, un mese, un anno? E, si potrebbe aggiungere, come può un solo individuo diventare testimone di fatti atroci nel mondo e immedesimarsi con chi li ha vissuti?

Il coinvolgimento fisico nella storia, inoltre, resterebbe a lungo. Non solo: le persone, ha raccontato Nonny de la Peña, reagiscono con i loro movimenti durante la storia – è il caso, descritto tra le reazioni degli spettatori dalla videomaker, di chi porta la mano di scatto alla tasca dei pantaloni, per prendere il telefonino, mentre assiste alle scene più violente, come se volesse chiamare soccorsi. "Una persona – ha infatti dichiarato la reporter – ha confessato che due settimane dopo aver sperimentato Use of Force [NdA: documentario immersivo sulla violenza della polizia al confine tra Messico e USA] sentiva ancora il ricordo della storia sul proprio corpo".

Insomma, la realtà virtuale lascia segni molto concreti, e secondo Eddy Moretti, direttore creativo di Vice, applicarla al giornalismo è il prossimo passo da compiere, non solo per raccontare la cronaca. Vice, infatti, ha già stipulato un accordo con la compagnia fondata da Chris Milk per la produzione di una serie di video immersivi su argomenti diversi.

Possibili ambiti: gli scenari di guerra ma anche la musica o, per esempio, il cibo. Un esperimento simile, su temi meno di impatto, è infatti già stato praticato dal Des Moines Register con Harvest of Change. In tre mesi, con il supporto di Don Pacheco, docente di giornalismo della Syracuse University, e con un budget di 50.000 dollari, la testata ha realizzato un dettagliato viaggio nella vita di ogni giorno di una famiglia dell'Iowa. Perché, ha spiegato Milk, per conoscere una cultura non c'è modo più efficace della possibilità di immergersi fisicamente nella quotidianità di chi la pratica.

Problemi etici o meno, in definitiva, l'immersive journalism è una promessa. Temerla non ha senso, provare a capirla, invece, è una sfida per tutti noi.

@fedecolonna