Il razzismo è un buon affare elettorale, non un’opzione di governo
Istituzioni ed economia
Suscitare consenso cavalcando cose estreme – il razzismo, l'antisemitismo, ma anche le suggestioni golpiste, la rivoluzione proletaria o la Guerra allo Stato Imperialista delle Multinazionali – è una grande specialità italiana, che dopo aver raschiato il fondo delle ideologie del Novecento ha trovato da tempo un nuovo filone d'oro nella questione dell'immigrazione.
Che gli immigrati siano solo l'8 per cento dei residenti del Paese, che i richiedenti asilo da noi ospitati siano appena 183mila, che il 2017 abbia visto misure piuttosto drastiche contro gli sbarchi, e che a Macerata dal 2011 ad oggi gli immigrati siano aumentati di 5 unità, ha poca importanza. Così come a suo tempo sarebbe stato del tutto irrilevante far presente a chi sparava a casaccio contro i militanti del Msi o della sinistra che non esisteva alcun concreto rischio di ritorno del fascismo né quello di un'invasione di cosacchi (per citare le opposte ossessioni dell'epoca).
Il razzismo porta voti, ascolti, copie vendute, popolarità, esattamente come ogni altro oltranzismo. Il razzismo è un buon affare. E gli effetti collaterali del razzismo – tipo il signor Luca Traini, sicuro psicopatico, che scende per strada a sparare ai neri che passano – sono probabilmente messi nel conto da chi agita il fantasma della razza, così come in altre epoche stava nel conto la suicida guerra dei ragazzi che insanguinò l'Italia. La politica è un lavoro che richiede alte dosi di cinismo: stupirsi per la reticente condanna di Matteo Salvini sui fatti di Macerata risulta addirittura ingenuo a chi ha un po' di memoria, e ricorda l'analogo calcolo della generazione che per anni non riuscì a condannare fino in fondo le Brigate Rosse o lo stragismo, malgrado la scia di sangue che si portarono dietro.
Tuttavia, c'è un limite oltre il quale anche il calcolo dovrebbe suggerire un passo indietro, perché si rischia di diventare vittime della stessa alchimia psicologica con cui si è cercato e ottenuto il consenso. La povera Giorgia Meloni, che ha pronunciato parole nette di condanna sul “terribile fotomontaggio” di Laura Boldrini decapitata, viene investita da una valanga di contestazioni dei suoi stessi seguaci. “Terribile - le scrivono - sarà nel caso la presidente della Camera. “Un esame di coscienza potrebbe anche farselo invece di fare la vittima”. “Per la Boldrini nessuna solidarietà”, “Ma cosa speri che la Boldrini contraccambi, in tutti questi anni non conosci ancora i komunisti?”, “Magari se lo è anche un po' cercato questo odio, la presidenta”. L'estremismo non conosce mediazione e non vuole limiti “buonisti”. L'estremismo, scavalcato un certo crinale, diventa la camicia di forza delle leadership, che devono stare attente a non deluderlo – soprattutto in campagna elettorale – perché altrimenti il voto estremista migrerà altrove, verso chi ha più pelo sullo stomaco e accetta asticelle più alte.
Anche questo lo abbiamo già visto. A un certo punto, nella Prima Repubblica, sia la destra sia la sinistra furono costrette dal degenerare delle cose a prendere le cesoie e a tagliare il filo psicologico che le legava all'estremismo. Lo fecero in modi diversi, ma lo fecero. Questo Punto Zero si sta avvicinando anche sulla questione del razzismo, e il caso di Macerata lo rende evidente: non si possono più tenere insieme ambizioni di governo e messaggi obliqui o reticenti in materia di razzismo, e si dovrà scegliere fra le une e gli altri. Cercare il consenso di chi apprezza la caccia al nero non è un reato, è possibile, e può essere persino politicamente pagante. Ma l'Italia non è la Polonia, e pensare di governare uno dei Paesi fondatori dell'Europa senza operare una scelta seria non è nell’ordine delle cose. Bisogna scegliere se rappresentare “lo Stato”, oppure prendersi gli applausi di chi dice “Traini sarà pure un delinquente, ma...”