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Il problema, in fondo, non è capire cosa farà Di Maio una volta diventato premier del primo governo a 5 stelle, se davvero convocherà un referendum per uscire dall’euro, magari avendo avuto cura di cambiare prima la Costituzione che non ammette referendum sui trattati internazionali, e se davvero a quell’ipotetico referendum voterà sì, come ha detto ieri. Se avvierà le pratiche per uscire dalla moneta unica evitando la complicata strada referendaria, se sera l’Italexit sono come minaccia verso l’Europa o piuttosto se farà finta di nulla e si scorderà dell’euro. Il problema non è quel che farà davvero Di Maio, ma quel che faranno gli italiani dopo aver mandato Di Maio a palazzo Chigi.

Una risposta piuttosto verosimile possiamo trovarla andando a vedere quel che è successo in Grecia con le elezioni del gennaio 2015. Il grafico (non è la prima volta che lo mostriamo su queste pagine, ma è sempre un utile promemoria) mostra la quantità di contante che circolava nel paese ellenico, e quindi portato via dagli istituti di credito: a partire dalla fine del 2014, quando si è cominciata a profilare una vittoria di Tsipras alle elezioni, è cominciata una rapida corsa agli sportelli, culminata nel panico generalizzato di giugno. Nello stesso periodo gli agricoltori preferivano conservare i loro raccolti piuttosto che venderli, evitando così di depositare in banca il loro controvalore, e si è registrato un aumento delle vendite di beni di prima necessità, fenomeno che in genere preannuncia il formarsi di un mercato nero.

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Tsipras, peraltro, non ha mai sostenuto - come invece fa apertamente Di Maio - l’opportunità di uscire dall’euro, o di usare la minaccia di uscire dall’euro come forma estrema di ricatto nei confronti delle istituzioni europee. Ma la vittoria di Tsipras rendeva più probabile, agli occhi dell’opinione pubblica, l’eventualità di politiche che avrebbero potuto condurre la Grecia fuori dall’euro. La reazione generalizzata è stata quella di correre in banca a ritirare i propri risparmi, prima che venissero riconvertiti in una moneta fortemente svalutata. Il finale della storia è noto: le banche che chiudono gli sportelli ormai prive di liquidità, l’economia che si avvia al collasso, il governo che si trova di fronte a un’alternativa drammatica: inventarsi una nuova valuta con cui rifinanziare il sistema del credito (quindi uscire davvero dall’euro) oppure accettare le condizioni dei creditori per un nuovo piano di salvataggio del paese.

Di Maio potrebbe ritrovarsi premier di un paese in bancarotta che rotola fuori dall’euro, senza aver fatto nulla di concreto per uscire dall’euro, oltre alle sue dichiarazioni irresponsabili di ieri. Che si vanno ad aggiungere a quelle di Salvini, che fuori dall’euro ci andrebbe senza nemmeno passare per un referendum, e quelle di Berlusconi, che si accontenterebbe - bontà sua - di una doppia valuta circolante (che per inciso è quello che sarebbe successo in Grecia nel momento peggiore della sua crisi, quando si parlava di emettere proprio una sorta di “moneta fiscale”). Cosa farebbe ciascuno di noi dei propri risparmi depositati in banca - tanti o pochi che siano - se il risultato elettorale rendesse anche solo un po’ più credibile questa eventualità? La risposta sincera a questa domanda contiene il destino del paese.

L’uscita dall’euro, non ci stanchiamo di ripeterlo, non è un meccanismo che si avvia o che si interrompe a piacimento, ma un caso di scuola di quello che gli economisti chiamano self fullfilling prophecy, una profezia che si autoavvera per il semplice fatto di essere stata espressa. E il fatto che ancora oggi, dopo un decennio di crisi economica, i leader del centrodestra e del Movimento 5 Stelle non lo abbiano capito (o facciano finta di non averlo capito) la dice lunga sui pericoli veri che corriamo.