ELSA FORNERO

Quando la Cgil era ancora affiliata alla Federazione sindacale mondiale (FSM), gli ospiti d’onore ai suoi Congressi erano – con l’eccezione della Cgt francese – i sindacati delle cosiddette democrazie popolari, tra i quali spiccava quello dell’URSS (il Paese guida). I sovietici, - per tanti motivi, avevano in grande considerazione la Cgil, che era pur sempre il più importante sindacato italiano. La loro delegazione era composta dai massimi dirigenti sindacali, mentre l’intervento di saluto era svolto dal segretario generale, il quale vantava i successi dell’ultimo Piano quinquennale, convinto di rafforzare in questo modo le simpatie degli astanti sulle "magnifiche sorti e progressive" della Patria del socialismo reale. Finito il discorso tra gli applausi dei delegati un altro componente della delegazione si avvicinava al palco della presidenza del Congresso per consegnare un busto di Lenin apparentemente di candido marmo pregiato. In realtà era un oggetto di plastica leggero come una palla.

Che cosa "c’azzecca" la pantomima del busto di Lenin con la riforma Monti-Fornero delle pensioni? È presto detto: a sei anni di distanza (dal prossimo 1° gennaio saranno sette) dalla sua entrata in vigore la disciplina del sistema pensionistico di cui all’articolo 24 del decreto Salva Italia somiglia sempre più quel busto di Lenin: apparentemente scolpito nel marmo, in verità composta di un’esile materia come la plastica. In tutto questo tempo, infatti, Governo, Parlamento e sindacati (nel silenzio assordante di Confindustria) si sono dati da fare per individuare deroghe, uscite di sicurezza, mancate applicazioni, rinvii. Senza perdere troppo tempo ad almanaccare, le norme del "soccorso rosso" disposte dal 2012 ad oggi sono state: otto salvaguardie per i cosiddetti "esodati", l’abrogazione della modesta penalizzazione economica in caso di pensionamento anticipato prima dei 62 anni di età, la revisione in senso più favorevole della normativa sui lavori usuranti, l’introduzione in termini strutturali di uno sconto sul requisito contributivo, a prescindere dall’età, per i cosiddetti precoci, e, sia pure in via sperimentale, il "pacchetto" Ape + Rita).

Alla fine dei conti, in vista della legge di bilancio per il 2018, l’estrema difesa di quella riforma è in corso sul "bagnasciuga" dell’adeguamento automatico all’attesa di vita dell’età pensionabile e dei requisiti contributivi: una battaglia che al dunque si combatte intorno alla decorrenza (il 2019?) dei 67 anni di età per aver accesso alla pensione di vecchiaia.

Il ministro Pier Carlo Padoan continua a raccomandarsi con i sindacati di consentire che il decreto (un atto dovuto di carattere amministrativo) sia varato entro l’anno per non "farsi sempre riconoscere" da Bruxelles e dai mercati. Ma il premier Gentiloni si è trincerato dietro una considerazione pilatesca: "il Parlamento è sovrano" (e tutti sanno che, sulla previdenza, i rappresentati del popolo sono come Harvey Weinstein: non se ne fanno scappare una, soprattutto sotto elezioni). Del resto nell’affannosa (e tardiva?) rincorsa di Matteo Renzi per recuperare le sparpagliate forze alla sua sinistra in vista delle prossime elezioni, anche il rinvio di sei mesi della fatidica decisione, sembra essere – al momento in cui scriviamo – l’ipotesi più probabile.

Non c’è scampo: in materia di pensioni vi sono ormai convinzioni radicate (veri e propri pregiudizi scolpiti nel cervello della gente dalla vulgata televisiva) che non si sforzano di misurarsi con i dati statistici, con gli andamenti della spesa pensionistica sul Pil o con le prospettive demografiche, ma assumono e fanno proprie tutte le rivendicazioni che emergono da una società, come quella italiana, composta da persone che, fin dalla nascita, sembrano aspettare il momento di andare in pensione. Per questi motivi vi sono ormai delle verità ossificate che è quasi impossibile contrastare e che si scaricano quasi con violenza sulla cosiddetta riforma Fornero del 2011, alla quale si attribuiscono tutte le responsabilità, anche quelle degli altri.

Uscite di casa al mattino di un giorno qualsiasi, fermate un passante e chiedetegli bruscamente a quale età si può andare in quiescenza dopo la riforma Fornero (soprattutto se sarà varato l’infame decreto sub iudice). Il vostro interlocutore risponderà certamente che occorrono 70 anni o poco meno. I più preparati si fermeranno a 67 anni. Invece la realtà è un’altra: "Nonostante un incremento graduale dell’età dovuto alle recenti modifiche normative, una percentuale rilevante di pensionamenti avviene prima dei 60 anni". Questa affermazione è farina del sacco dell’Inps e campeggia nella pubblicazione periodica "Statistiche in breve" a cura del Coordinamento attuariale dell’Istituto di via Ciro il Grande, riguardante le pensioni vigenti al 1° gennaio 2017 e liquidate nel 2016 (con l’esclusione delle gestioni dei dipendenti pubblici e dell’ex Enpals, nonostante che questi enti siano stati incorporati da anni nel SuperInps).

 

La smentita delle statistiche

Come è possibile una smentita tanto netta ad una convinzione così consolidata ?È sufficiente osservare le statistiche relative ai numeri e all’età media delle pensioni (di carattere previdenziale) per anno di decorrenza. Certo, se ci si ferma ai trattamenti di vecchiaia nel 2016, con riguardo ai principali regimi privati dei lavoratori dipendenti e autonomi, l’età media alla decorrenza è stata pari a 66 anni (66,8 gli uomini e 65,1 le donne). I dati – come vedremo - cambiano di pochi decimali di punto nell’anno in corso. Ma la spiegazione c’è. Nel caso della vecchiaia, incide molto la parificazione tra generi, già avviata dall’ultimo governo Berlusconi ed accelerata dalla legge del 2011. Tanto che, rispetto ad allora, l’età media alla decorrenza per i maschi è cresciuta di 0,9 anni, mentre sono stati 3,7 anni per le donne. Diverso è il trend delle pensioni anticipate/di anzianità. Ma – direte voi - la riforma Fornero non ne aveva decretato il superamento? Ecco un’altra leggenda metropolitana: quel trattamento "è vivo e lotta insieme a noi".

Dal 2012 (quando è entrata in vigore la disciplina "stramaledetta") fino a giugno di quest’anno, sono state liquidate più di 720mila pensioni anticipate, contro 570mila prestazioni a titolo di vecchiaia. E a quale età media si è varcata, in anticipo, l’agognata soglia? Nel 2016 a 60,7 anni (dato complessivo per uomini e donne di tutte le gestioni considerate: 61,1 i primi e 59,8 anni le seconde); due decimali in più nei primi sei mesi del 2017. Sul numero dei trattamenti di anzianità hanno influito molto le uscite dei c.d. esodati, i quali – grazie alle salvaguardie (se ne prepara una nona?) – sono stati in grado di utilizzare quella tipologia di quiescenza per di più secondo le regole ante-riforma (per questi motivi rifiutano di avvalersi dell’Ape – che si ottiene a 63 anni - e continuano a rivendicare ulteriori "libere uscite" dopo averne ottenute ben otto). Considerando, poi, lo stock delle gestioni prese in esame, nel 2016 le pensioni di anzianità sono state 4,2 milioni (per una spesa annua di 90 miliardi) e nel 78% dei casi erogate a lavoratori; quelle di vecchiaia 4,8 milioni (per un ammontare di 42,8 miliardi) per due terzi riservate a lavoratrici.

Anche di questa "specializzazione di genere" una spiegazione esiste. Per la loro condizione complessiva è difficile che una lavoratrice possa acquisire quell’anzianità contributiva (ormai prossima ai 42 anni) che potrebbe consentirle l’accesso al trattamento anticipato, a prescindere dall’età anagrafica. Ne deriva che, nella maggior parte dei casi, le donne (se non sono in grado di utilizzare l’uscita di sicurezza dell’opzione donna – cioè di optare per una prestazione interamente calcolata con il metodo contributivo – che peraltro viene riproposta da alcuni emendamenti al disegno di legge di bilancio) sono costrette ad attendere l’età di vecchiaia quando bastano 20 anni di versamenti contributivi per maturare l’accesso alla quiescenza. E purtroppo, l’anzianità contributiva media nel caso di una pensione di vecchiaia di una lavoratrice è pari a 25,5 anni (poco più del requisito minimo richiesto).

Ma vediamo i dati di flusso nel primo semestre dell’anno in corso. Per quanto riguarda il fondo dei lavoratori dipendenti sono stati liquidati 43mila trattamenti anticipati (età media alla decorrenza 60,9 anni) contro 24mila di vecchiaia (età media alla decorrenza 65,5 anni). Nel complesso delle gestioni la vecchiaia ha sopravanzato l’anzianità (75mila contro 66mila) in conseguenza del maggior numero di quest’ultima tipologia tra i lavoratori autonomi (nel primo semestre dell’anno 30mila contro 22,5mila).

 

Più aumenta l’attesa di vita più si abbassa l’età del pensionamento

L’intreccio tra condizioni lavorative dei baby boomers e regole generose del pensionamento ha determinato l’effetto di consentire l’anticipo della pensione e la possibilità di rimanerci più a lungo, come viene ben descritto nel saggio di Fabrizio e Stefano Patriarca sulla rivista Politiche sociali (il n. 3/2015): nel 2001 la voce di spesa più elevata riguardava le pensioni di vecchiaia (61,7 miliardi) contro i 58,2 miliardi dei trattamenti di anzianità. Nel decennio successivo è cambiata profondamente la struttura della spesa: quella delle pensioni di anzianità è aumentata del 104%, mentre la spesa per la vecchiaia soltanto del 23%. Negli anni del nuovo secolo vi è stato un incremento di spesa pari a circa 89 miliardi, dei quali ben 60 miliardi addebitabili ai maggiori oneri per gli assegni di anzianità, mentre è di 14 miliardi il contributo alla crescita dovuto alla vecchiaia (la parte residua è attribuita alle altre tipologie). L’incidenza della spesa pensionistica riguardante i soggetti in età compresa tra 55 e 64 anni è in Italia di poco inferiore al 4% del Pil (contro il 2,2% della media europea).

Da tutto ciò, secondo gli autori citati, sono derivate diverse conseguenze: in Italia il tasso di occupazione della popolazione in età compresa tra i 55 e i 64 anni è il più basso di tutti i Paesi considerati e si situa al di sotto sia della media europea sia di quella dell’Eurozona; la permanenza media sul mercato del lavoro è ben di cinque anni inferiore alla media europea, di sette anni più bassa di quella della Germania e del Regno Unito e di quasi 10 anni rispetto a quella olandese.

Nel saggio citato, Fabrizio e Stefano Patriarca smentiscono anche le accomodanti teorie secondo le quali il pensionamento anticipato sarebbe servito alle categorie degli operai con accesso precoce nel mercato del lavoro. Infatti, tra il 2008 e il 2012, dei 988mila nuovi pensionati di anzianità solo il 44% si collocava al di sotto dei 1.500 euro mensili per una spesa complessiva di 6,2 miliardi pari al 26% di quella complessiva. In questa platea, i dipendenti privati rappresentavano il 18% con una spesa pari al 10% del totale. La maggioranza delle pensioni di anzianità (il 55%) erano di importo più elevato di 1.500 euro mensili per un ammontare pari al 75% di quella totale. In conclusione, negli anni 2000, vi sono stati circa 3,5 milioni di nuovi pensionati con un’età media di pensionamento di 57-58 anni, con prestazioni medio-alte, appannaggio della middle class (rispetto alle quali operai ed impiegati dei bassi livelli sono stati una larga minoranza), la cui incidenza copre attualmente la gran parte delle prestazioni pensionistiche previdenziali e per le quali lo squilibrio tra contributi e prestazioni percepite è molto forte.

 

Pensionati e povertà: un’equivalenza discutibile

Il documento dell’Inps, poi, aiuta ad interpretare correttamente i dati concernenti l’importo delle pensioni: il cavallo di battaglia di coloro che identificano la condizione di pensionato con quella di povero (salvo voler spennare, per presunto senso di equità, i percettori di assegni d’oro). È scorretto e falso associare, in termini generali, l’idea dell’anziano pensionato a quella dell’indigenza. In Italia, un minorenne su 10 vive in condizione di povertà assoluta (il triplo rispetto al 2005). Per quanto riguarda la popolazione dai 18 ai 34 anni i poveri sono passati dal 3,1% nel 2005 al 9,9% di oggi. Dai 35 ai 64 anni dal 2,7% al 7,2%. L’incidenza della povertà è diminuita solo tra gli over 65 anni (4%). In 20 anni il reddito medio di questi ultimi è cresciuto di 18 punti; quello degli under 34 è diminuito di 11 punti. La quota di ricchezza detenuta dagli anziani è aumentata del 60% mentre è calata di altrettanto per quanto riguarda gli under 34 anni. Eppure l’84% delle prestazioni assistenziali – quelle rivolte al contrasto della povertà – è riservato agli anziani.

Questi sono dati oscurati nel cicaleccio sulle pensioni. Anche ai bambini hanno insegnato ormai a ripetere che il 63% delle pensioni ha un importo mensile inferiore a 750 euro. Seguono allora nei talk show della sera dozzine di interviste di persone anziane che stentano a sopravvivere in tali ristrettezze economiche. "Questa percentuale – scrive l’Inps - che per le donne raggiunge il 76,5%, costituisce solo una misura indicativa della 'povertà', per il fatto che molti pensionati sono titolari di più prestazioni pensionistiche o comunque di altri redditi". Per spiegare tale valutazione il Coordinamento attuariale sottolinea che "delle 11.374.619 pensioni con importo inferiore a 750 euro, solo il 44,9% (5.106.486) beneficia di prestazioni legate a requisiti reddituali bassi, quale l’integrazione al minimo, maggiorazioni sociali, pensioni e assegni sociali e pensioni di invalidità civile": sono queste le integrazioni riconosciute a chi dispone solo della sua pensione.

Non si deve, inoltre, mai fare confusione tra pensioni e pensionati: le prime (appartenenti ad ogni possibile tipologia) sono 23 milioni (di cui quasi 18 milioni quelle dei settori privati censite nel documento); i pensionati – come persone fisiche – sono 16,3 milioni. Ne deriva – come è scritto nel Rapporto 2016 di Itinerari previdenziali - che "non è corretto parlare di prestazioni ma di pensionati, cioè di soggetti fisici che percepiscono più prestazioni". Infatti, "dal rapporto tra numero di prestazioni su pensionati emerge, quindi, che nel nostro Paese, in media, ogni pensionato percepisce 1,434 pensioni". Il che determina – secondo il Rapporto citato – che la pensione media per ogni pensionato, nel 2016, non era pari a 11.695 euro annui (come risulta dividendo l’ammontare della spesa per il numero delle prestazioni), ma di 16.638 euro (corrispondenti alla divisione tra il monte pensioni e il numero dei pensionati).

 

Il nodo cruciale dei trend demografici

Un altro fattore cruciale per qualsiasi sistema pensionistico è quello demografico. Secondo le previsioni dell’Istat, per quanto riguarda la speranza di vita alla nascita, tra 40 anni, in Italia, i nati maschi avrebbero un’aspettativa di oltre 86 anni e le femmine di 91. All’età di 80 anni, i maschi avrebbero in media ancora circa 12 anni da vivere e le femmine oltre 14. Ma l’esigenza di ritardare il pensionamento non si pone soltanto per quanto riguarda la sostenibilità del sistema pensionistico, ma anche per riequilibrare un assetto del mercato del lavoro rovesciato dai trend demografici. L’Istat (Il futuro demografico del Paese) prevede che, secondo lo scenario mediano, la popolazione residente tra 50 anni diminuisca (nonostante un sostenuto flusso di immigrazione) di cinque milioni di unità.

Ma il cambiamento più radicale è quello che si verificherà nella struttura della popolazione. "Parte del processo di invecchiamento in divenire è spiegato dal transito delle coorti del baby boom (1961-1975) – scrive l’Istituto di statistica – tra la tarda età attiva (40-64 anni) e l’età senile (65 e più). Il picco di invecchiamento colpirà l’Italia nel 2045-2050 quando si riscontrerà una quota di ultrasessantacinquenni vicina al 34%. L’età media passerà entro mezzo secolo dagli attuali 44,7 anni a 50 anni. E non basterà a raddrizzare gli squilibri – ammesso e non concesso che continui con gli attuali flussi – neppure l’apporto dell’immigrazione. L’Europa, che ogni anno accoglie 700 mila immigrati, per contrastare l’invecchiamento della sua popolazione ne dovrebbe accogliere circa 2,5 milioni all’anno da oggi fino al 2050. Questi caveat trovano ulteriori conferme nelle analisi (sempre a cura dell’Inps) sui flussi più recenti ovvero sulle nuove pensioni.

 

La grande illusione: più anziani in pensione, più giovani al lavoro

Ma c’è da smentire un’altra fake news secondo la quale la riforma Fornero sarebbe tra le principali ragioni della disoccupazione giovanile, a causa del rinvio del pensionamento dei lavoratori più anziani. È un buon senso da Bar Sport: gli anziani sono costretti ad occupare quei posti di lavoro che altrimenti sarebbero riservati a nuove assunzioni. Eppure secondo una vasta e prevalente letteratura – ricordata nel Focus n.6/2016 dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio (UPB) – gli aumenti di occupazione degli anziani non sottraggono spazio alle altre fasce di età. Al contrario, carriere lavorative più lunghe e tassi di occupazione più alti per gli anziani sarebbero associabili a maggiori opportunità lavorative e a più elevati tassi di occupazione per i giovani, senza che emerga uno spiazzamento generazionale (crowding-out). Simmetricamente, politiche di prepensionamento sono inefficaci o addirittura dannose nel promuovere l’occupazione dei giovani.

Le spiegazioni più ricorrenti di queste teorie sono di tre tipi. In primo luogo, si evidenzia che le forze di lavoro di diversa età non sono omogenee per capacità e vocazioni e che quindi le diverse generazioni sono complementari – sostiene il Focus – più che sostituibili all’interno degli organici. In tale prospettiva, un turnover generazionale incentivato o addirittura indotto da misure di prepensionamento potrebbe squilibrare la composizione delle forze di lavoro e avere effetti negativi sulla produttività. In secondo luogo, una più elevata spesa per pensioni si tradurrebbe, se finanziata a ripartizione (pay-as-you-go), in maggiori imposte e/o contributi obbligatori, con effetti distorsivi sia sul lato dell’offerta di lavoro sia sul lato della domanda. Infine, viene chiamata in causa anche la composizione della spesa pubblica per welfare che, quando risulta sbilanciata eccessivamente sul capitolo pensioni per eccesso di uscite ad età basse, manca di sufficienti risorse da dedicare agli altri istituti di welfare (politiche attive e passive del lavoro, conciliazione vita-lavoro, politiche per la famiglia e le non autosufficienze, formazione, ecc.).

In alcuni autori, poi, si riscontra anche una quarta spiegazione dell’insussistenza di un collegamento, sia pure indiretto, tra prepensionamenti e nuova occupazione: la spiegazione chiama in causa il disincentivo ad accumulare capitale umano quando questo può essere utilizzato su una vita lavorativa di durata inferiore. Nel tempo, questo disincentivo si tradurrebbe in minore qualità delle forze di lavoro e in minore crescita, con più scarse possibilità occupazionali per tutti (tanto che, come vedremo, l’innalzamento dell’età pensionabile ha prodotto un consistente incremento dell’attività formativa). Può essere, però, che una crisi tanto lunga come quella che ci portiamo appresso dal 2008 abbia introdotto delle diverse considerazioni da compiere, a proposito della corrispondenza tra pensionamenti e nuove assunzioni. In merito sono state compiute alcune ricerche empiriche (perché è impossibile reperire dei dati di fatto) di cui ricordiamo le principali.

Secondo un contributo del 2016 di Boeri, Garibaldi e Moen ricavato dal monitoraggio su 80mila imprese (con più di 15 dipendenti) nel periodo intercorrente tra il 2008 e il 2014, per ciascun lavoratore ‘’bloccato’’ per una durata di cinque anni si è perduto circa un nuovo occupato. Proiettando questo esito sull’insieme delle imprese con più di 15 dipendenti rimaste attive per tutto il periodo considerato, i nuovi requisiti per l’accesso al pensionamento avrebbero ridotto le assunzioni di 37mila unità. Vi è poi un’analisi dell’INAPP (ex ISFOL) condotta nel 2015 su di un campione di 30mila imprese del settore privato extra-agricolo, dalla quale risulta che la riforma Fornero avrebbe prodotto un cambiamento nei piani di assunzione programmati nel periodo 2012-2014 per circa il 2,2% delle aziende considerate, con la conseguenza di mancate assunzioni per 43.285 dipendenti. In sostanza una perdita di nuovi ingressi pari a circa lo 0,5% del totale dei dipendenti stimato nel 2014 (poco meno di 9,5 milioni) e al 3,1% se rapportato al numero di assunzioni potenziali.

Le nuove regole del pensionamento, però, avrebbero determinato un aumento del 9% dell’incidenza dell’attività formativa da parte di lavoratori in età compresa tra 40 e 54 anni. Ne deriva, a conclusione della ricerca dell’INAPP, che "l’effetto della riforma si sia esplicato più che nei margini intensivi delle scelte di assunzione (quanti lavoratori assumere, ecc.), nelle modalità di organizzazione dei mercati interni del lavoro e sugli incentivi ad investire in capitale umano e in capitale fisico, anche per favorire la produttività del segmento più anziano della forza lavoro".