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Sono due le ragioni fondamentali per cui è utile (re)introdurre flessibilità nelle regole per il pensionamento. Prima di tutto, però, una precisazione: (re)introdurre flessibilità è cosa molto diversa dal pre-pensionare.

Da un lato, l’eventuale ammorbidimento dei requisiti anagrafico contributivi introdotti dalla riforma Fornero avverrebbe infatti previa applicazione di penalità attuariali sull’importo della pensione (non sarebbe un “pasto gratuito”); dall’altro lato non necessariamente si creerebbero situazioni inaccettabili di accesso troppo precoce, perché di fatto i requisiti “Fornero” sono molto elevati e stringenti, e un po’ di flessibilità, più che stravolgere, andrebbe nella direzione di normalizzare.

Proviamo a tenere lontani i fantasmi delle scelte scellerate compiute negli anni ’70 e ’80 e che adesso fanno, anche a buona ragione, insospettire quando si parli di ritocchi al ribasso dei requisiti di pensionamento, e vediamo quali sono le due ragioni pro flessibilità.

In primo luogo, mantenere le persone al lavoro controvoglia deprime la produttività. Non conviene alle imprese, ancor meno alla Pubblica Amministrazione che ha storicamente grosse difficoltà nella verifica dell’impegno profuso ogni giorno dai suoi dipendenti.

Che cosa conviene di più alla PA? Pagare il 100% della retribuzione a lavoratori anziani scarsamente produttivi, oppure pagare loro una pensione significativamente inferiore al 100% e fare spazio a nuove professionalità, giovani, produttive e retribuite al livello iniziale di carriera? Nelle fasce anziane di età che vorrebbero cessare il lavoro, la produttività marginale rischia di essere drasticamente al di sotto del costo marginale sostenuto dai datori. Passando dal livello micro a quello macro, l’effetto depressivo si trasferisce all’intera economia.

La critica a questa considerazione sostiene che ogni pensionato in più è un ulteriore pensionato a carico di chi, occupato, con le imposte e i contributi sociali finanzia anno per anno gli assegni da erogare. Più sono i pensionati, più alta è la pressione fiscale, con le connesse conseguenze depressive.

I due effetti, in realtà, non si escludono a vicenda ma coesistono, e il punto di policy non è capire in quale dei due “credere” sempre e comunque, ma quali scelte compiere per gestire al meglio il loro trade off. In questa sfida va anche tenuto presente che, se si costringono le persone a rimanere al lavoro, di lì a qualche anno si dovranno anche corrispondere loro pensioni più elevate, con un maggior peso sulle spalle degli occupati di domani. Far lavorare di più, a parità di regole di calcolo delle pensioni, non allevia il fardello sulle spalle degli occupati.

L’altra ragione a favore della flessibilità è il ricambio generazionale, la cosiddetta staffetta giovani-anziani. Regole troppo rigide di pensionamento ostacolano il turnover fisiologico perché, per ogni anziano trattenuto, complicano le possibilità di ingresso e/o progressione dei giovani nel mondo del lavoro.

La critica a questa seconda considerazione fa sostanzialmente riferimento alla cosiddetta lump of labour fallacy: la “torta” non è finita o limitata (dicono i sostenitori della fallacy), e se i giovani hanno problemi occupazionali non è perché gli anziani stanno occupando il loro posto, ma perché l’economia non cresce come dovrebbe per altre ragioni che hanno a che fare con altri aspetti di struttura.

Il conflitto generazionale, in altri termini, sarebbe una conseguenza delle mancate riforme pro-crescita; una volta realizzate queste ultime, esso si stempererebbe, lasciando anche emergere le complementarietà virtuose tra competenze dei giovani e competenze degli anziani. Per converso, se il conflitto viene risolto artificiosamente, con rilassamenti sul fronte pensionistico, le riforme pro-crescita appaiono meno urgenti e sono più facilmente procrastinate.

Si tratta di un punto di vista che, almeno in questa forma così tranchant, può certamente essere valido nel medio-lungo termine, quando, per definizione, i fattori produttivi e le loro combinazioni cambiano e hanno modo di ottimizzarsi. Noi, però, siamo nella necessità di chiederci che cosa accadrà da oggi a non più di 4-5 anni, e calare il più possibile la risposta all’interno della fase negativa che l’economia sta attraversando e delle caratteristiche del sistema pensionistico italiano, così come modificate proprio per far fronte alla crisi.

Non basta mostrare l’inesistenza del conflitto giovani-anziani a partire dai tassi di disoccupazione cross-countries per fasce di età. La fotografia istantanea che così si ottiene unisce Paesi eterogenei, e al più può essere utile a rilevare che le generazioni non sono normalmente in conflitto, ma non può certo escludere in maniera assoluta che esse possano entrarvi. Quella istantanea suggerisce, se si vuole, una cosa ovvia, ossia che per far lavorare i giovani non si devono pre-pensionare gli anziani, ma non arriva a dire che rendere un po’ più flessibili parametri pensionistici di “rigore”, adottati di urgenza nella fase più acuta della crisi, sia un passo non necessario o addirittura dannoso.

Nella fase di depressione in cui siamo ancora coinvolti, che ha ormai assunto connotati marcatamente keynesiani (domanda aggregata insufficiente, investimenti scarsi, bassa fiducia nazionale e tra Paesi), il costo di mantenere in organico un anziano desideroso di ritirarsi inevitabilmente riduce le risorse che le imprese potrebbero dedicare all’assunzione di giovani con capitale umano nuovo e voglia di crescere e generare valore. Più in generale si può dire che il costo di trattenere un anziano, desideroso e magari bisognoso di ritirarsi, sottrae risorse ai piani di riorganizzazione e rilancio delle attività produttive e agli investimenti in capitale fisico e umano.

Se i giovani restano disoccupati per troppi anni, il loro capitale umano diviene a rischio di depauperamento, e così anche il livello di produttività che potranno offrire una volta rientrati nel mondo del lavoro. Quando si discute di sostenibilità delle pensioni e peso degli anziani sugli occupati, infatti, si deve anche considerare come si evolverà la composizione delle forze di lavoro e la qualità del loro capitale umano. Uno stato di disoccupazione o di sottoccupazione prolungato oltre il biennio può segnare in maniera profonda e irreversibile il percorso professionale futuro.

Siamo proprio sicuri che “oliare” la staffetta in questo momento sia inutile perché il lavoro non è fisso? Quello che poi stupisce è che spesso sono proprio i sostenitori della riforma del lavoro e della flessibilità contrattuale (Jobs Act con contratto a tutele crescenti e altre componenti) a non fermarsi un attimo a
riflettere che, in fondo, nei termini in cui si sta affrontando il tema adesso in Italia, il pensionamento flessibile non è che un altro aspetto di una più agevole e volontaria riorganizzazione dei rapporti di lavoro. Piuttosto che opporsi nel nome di un theorem of fallacy, sarebbe utile che vigilassero su come la flessibilità è effettivamente resa operativa, senza regali in termini di riduzioni attuariali degli assegni e rimanendo all’interno di un intervallo ragionevole di età.

Per inciso, nel mondo il pensionamento flessibile è la norma. Sul punto si veda, per esempio, “A comparative review of international approaches to mandatory retirement” (2010), di A. Wood, M. Robertson e D. Wintersgill, Uk Department for Work and Pensions, o “The New flexible Retirement”, una survey recente (2015) a cura di Aegon - Center for Longevity and Retirement.