I Tory, l'Europa e la lunga estate della Brexit
Istituzioni ed economia
Persino nel Regno Unito dal calendario sballato, dove campionato e scuole ricominciano settimane prima, i mesi estivi sono politicamente sonnolenti.
Ci si dedica a polemicucce da ombrellone e si affilano le armi per la stagione delle conferenze di partito, in autunno. Theresa May, tornata dalle vacanze a Sirmione, si è ritrovata seduta sul trono di spine di Downing Street, reso ancora più scomodo dall’incombenza delle trattative sulla Brexit e dal fallimento della sua scommessa elettorale. Con l’avvicinarsi della conferenza di Manchester, infatti, il Primo Ministro teme che i suoi rivali interni approfittino dell’occasione per farle le scarpe.
I brexiteer sono sempre in prima linea, con Boris Johnson in pole position: il ministro degli esteri, all’indomani del flop elettorale, rassicurò May con messaggi Whatsapp di sostegno casualmente ottenuti dalla stampa. Il suo ex amico Michael Gove, un altro dei leader di Vote Leave, rientrato al governo dopo aver “tradito” BoJo candidandosi alla leadership, è un altro papabile. L’outsider è Jacob Rees-Mogg, deputato per il Nordest del Somerset, poshissimo figlio di un ex direttore del Times, euroscettico di grande cultura ma soprattutto idolo dei social, dove imperversano meme che ne esaltano la parlantina forbita e gli abiti su misura.
Se anche May dovesse sopravvivere alle forche caudine di Manchester, il sentiero davanti a lei rimarrebbe comunque in salita, con il timer della Brexit che procede inesorabile verso la fine dei negoziati, a malapena cominciati.
Come già si è visto non appena le squadre di negoziatori si sono sedute al tavolo, le priorità di Bruxelles e Londra, per usare un eufemismo, non coincidono. L’UE vuole che prima di discutere di ogni altra questione si regolino i conti finanziari, facendo pagare ai britannici i costi della separazione. Molti deputati euroscettici a Westminster ritengono ridicole le richieste del team Barnier, ma occorre tenere conto che ci sono progetti e pensioni da pagare. Downing Street vorrebbe invece accelerare il processo per accedere alla “seconda fase” dei negoziati, quella in cui si discuterà degli accordi commerciali.
Secondo May il governo sta procedendo a passo spedito, ma sul continente non ne sono così convinti. Miro Cerar, primo ministro sloveno, ha dichiarato nel corso di un’intervista al Guardian che servirà “decisamente più tempo rispetto a quanto ci si aspettava all’inizio dei negoziati”. I nodi sui pagamenti dovranno essere sciolti a settembre e ottobre, per riuscire a restare nei tempi prestabiliti.
Uno dei problemi che rendono la trattativa più difficile è il ruolo nei negoziati e post-Brexit della Corte di Giustizia Europea, storicamente avversata da May e dai leavers. Alcuni hanno proposto che la corte di riferimento per i problemi commerciali sia quella dell’EFTA, l’area di libero scambio fondata nel 1960 come alternativa mai realmente decollata al mercato unico della CEE, cui ora appartengono solo Svizzera, Islanda, Norvegia e Liechtenstein. Tuttavia la corte EFTA è collegata alla ECJ, che ha un ruolo di consulente, un’influenza intollerabile per i sostenitori del Leave.
Su questo punto si giocano i primi passi dei negoziati e il futuro politico di May, continuamente punzecchiata dagli euroscettici, pronti a sbarazzarsene al primo passo falso.