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Le polemiche sul caso Fincantieri-Stx e sul voltafaccia del presidente Macron rispetto agli impegni assunti dal suo predecessore Hollande hanno rappresentato, in Italia, l’ennesima occasione per riproporre una lettura caricaturale e “pugilistica” del rapporto tra i diversi interessi nazionali nel mercato comune europeo.

Il segretario del PD, con la metafora dei “gomiti larghi” che servirebbero per approcciare i tavoli europei (e con la minacciosa evocazione di una nazionalizzazione ope legis della rete telefonica fissa sotto il controllo della francese Vivendi) ha promesso di vendicare l’affronto, ma ha anche riconosciuto al Presidente francese il diritto di fare quello che fa, in difesa del proprio interesse nazionale, accusando implicitamente l’esecutivo italiano di non essere in grado di fare altrettanto.

Sul tema dell’interesse nazionale (quello economico e, più in generale, quello politico-strategico degli stati membri dell’Ue) continua purtroppo a pesare un equivoco, che la classe politica preferisce sforzarsi di gestire, piuttosto che di dissipare, e che dunque finisce per condizionare in maniera determinante la percezione della “questione europea”.

Fino a che però la rappresentazione dell’ambiente e delle regole Ue sarà - anche da parte di forze nominalmente europeiste - quella di una sorta di ring in cui si confrontano Paesi di peso e potenza diversa, con i più grandi e forti destinati naturalmente a prevalere e i più deboli a soccombere, allora evidentemente l’integrazione europea sarà vista come una trappola anche da parte di un Paese come l’Italia, tutt’altro che piccolo e indifeso, ma traumatizzato per un ventennio da crescenti differenziali negativi di sviluppo economico e civile ed educato a ravvisare in questa sopravvenuta debolezza la prova della natura “costituzionalmente” prevaricatrice della costruzione europea.

Dal punto di vista storico-politico l’Ue ha al contrario funzionato come un sistema di opportunità che molti stati hanno sfruttato e altri, come l’Italia, in parte significativa sprecato. In teoria però basterebbe dare un’occhiata a ciò che gli Stati europei, in primis l’Italia, erano prima dell’Ue e ciò che sono nel frattempo diventati, a partire dalla loro adesione, per concludere che non c’è un solo Paese che possa dire di averci perso. L’Ue non è stata affatto un gioco a somma zero tra interessi nazionali vincenti e perdenti, ma un gioco a somma ampiamente positiva, proprio grazie a un processo di integrazione e a condizioni di diritto che hanno reso il gioco degli interessi più libero e competitivo e meno condizionato dai meri rapporti di forza politico-militare.

Chi mette in guardia dalla fine degli stati nazione ha ragione nel senso che occorre concretamente fare i conti con la “rinazionalizzazione” dei processi politici, ma non nel senso che oggi, in Europa, possa tornare a essere “nazionale” la difesa degli interessi economici nazionali.

Senza l’euro, il mercato comune e la libera circolazione dei fattori produttivi, dei beni e dei servizi l’Italia sarebbe davvero - cosa che oggi non è - un Paese economicamente alla deriva. Il nostro interesse - se è quello a migliorare i tassi di crescita, di occupazione e di alfabetizzazione, a modernizzare il sistema di welfare e i servizi di cura, a rendere la ricerca scientifica e tecnologica un driver di sviluppo economico e civile… - coincide con quello in un’Europa più integrata.

L’interesse nazionale opposto al diritto e alla politica sovranazionale dell’Ue è invece una piccola truffa ideologica, ma un gigantesco problema politico, destinato ad aggravarsi fino a che la gran parte dei politici considererà sconveniente svelarne la fallacia.

@carmelopalma