Tajani e May, Trump e Xi Jinping: l'Occidente e il mercato nel mondo alla rovescia
Istituzioni ed economia
Ieri è stata una di quelle giornate in cui il mondo è sembrato seriamente girare all'incontrario. A Davos il Presidente cinese Xi Jinping ha difeso con alate parole il libero mercato e la globalizzazione economica, mentre Trump e May confermavano il patto per un'inedita alleanza atlantica anti-Nato e anti-Ue e a difesa del fondamentale valore politico delle frontiere economiche rispetto alla libera circolazione dei fattori produttivi, dei beni e dei servizi come garanzia dell'effettiva sovranità territoriale e quindi, in ultima istanza, della libertà.
Ciò non toglie che Usa e UK rimangono non solo stati liberi, ma anche economie di mercato e la Cina no. Non è un caso che la resistenza politica, per flebile e perdente che oggi appaia, alla deriva politica imposta dalla paura e dalla frustrazione dell'uomo bianco come chiave del successo di Trump e della Brexit non ha altre categorie e altri codici concettuali e linguistici se non quelli ereditati dalla storia e dall'esperienza della democrazie occidentali, a partire proprio da quelle anglo-americane. Le ragioni e i sentimenti che militano contro la politica della chiusura propugnata dai nuovi inquilini della Casa Bianca e di Downing Street partono tutti, in fondo, dalla Casa Bianca e da Downing Street e da quell'invenzione "occidentalistica" rappresentata dall'Unione europea.
La Cina, anche (e forse soprattutto) la nuova Cina capital-comunistica post Deng, in questo discorso serio e capitale dell'Occidente con se stesso, non è una sponda, ma un problema, non è un modello, ma rimane una alternativa "di sistema", un argomento facile per Trump e una questione difficile, da maneggiare con cura, per chi in Occidente, vuole difendere nella globalizzazione come processo di convergenza del mercato internazionale verso standard e regole di diritto capitalistiche e non meramente affaristiche, pro-market e non agnosticamente pro-business, tenendo ad esempio ferma la differenza, economica e civile, tra le fabbriche e i laogai. Invocare contro Trump le parole di Xi Jinping fa il gioco di Trump.
Guardando a tutto quello che succede sulla sponda atlantica fuori dal ridotto britannico (anzi, inglese, perché il Regno Unito è uscito diviso dal voto sulla Brexit e rischia di uscire spaccato dall'abbandono dell'Ue), l'Unione europea è l'unica realtà politica che nei marosi del disordine globale oggi si gioca letteralmente la pelle, non solo parte delle proprie fortune. La convergente strategia di disarticolazione dell'Unione tra Mosca e Washington, che amplifica le tensioni nazionaliste che attraversano da tempo tutto il continente, implicherebbe una risposta all'altezza della sfida. Cosa di cui le élite europee, Merkel a parte, non sembrano essere non dico capaci, ma neppure consapevoli.
La prova di questa inadeguatezza e dell'autoreferenzialità patologica di quella monade istituzionale rappresentata oggi dal Parlamento europeo (e dalle famiglie politiche europee) è perfettamente rappresentata dall'elezione alla Presidenza di Antonio Tajani.
Al di là delle caratteristiche, dei limiti o delle qualità della persona, solo un'assemblea sigillata alle voci del mondo e ai venti che spirano sul destino europeo avrebbe potuto intronare nella terza carica dell'Unione il rappresentante di un partito culturalmente anti-europeista, che accusa da anni esplicitamente Bruxelles di avere compiuto nel 2011 un golpe contro l'Italia, la Germania di avere congiurato per il vassallaggio italiano agli interessi tedeschi, e l'Unione politica e monetaria di imporre regole che "rovinano" l'economia europea.
Ieri mentre il berlusconiano Tajani era proposto e votato come presidente del Parlamento europeo dai popolari della CDU-CSU, il direttore berlusconiano del Giornale di Berlusconi pubblicava un editoriale invocando l'arrivo di Trump per liberarci dalla Merkel come nel '45 gli americani ci liberarono dai nazisti. Alla guerra contro l'Europa, l'Unione si presenta con seduto sullo scranno più alto di Strasburgo un presidente, che per dissimulare la contraddizione, si dichiara ora ostentamente "neutralista". Un inizio da incubo di un periodo da incubo.