Roma Capitale: il partito dei bancarottieri e il bilancio senza riforme
Istituzioni ed economia
Chiariamo subito una cosa: chi dovesse illudersi di poter risanare il bilancio di Roma “a bocce ferme”, limitandosi a spostare risorse (e debiti) da una parte all’altra, farebbe meglio a rinunciare in partenza e a dedicarsi ad altro. L’attuale situazione della capitale non è soltanto figlia di una mala gestione che dura ormai da decenni, ma anche (e soprattutto) di un sistema fallimentare che andrebbe ampiamente riformato: iniziando davvero una “rivoluzione”, al di là delle promesse elettorali e dei “cambiamo tutto” che fino a oggi non hanno avuto alcun riscontro nella realtà.
D’altra parte, l’adagio secondo il quale per il risanamento sarebbero inevitabilmente necessari “lacrime e sangue”, ripetuto come un mantra da chi continua a difendere l’esistente e si rifiuta di immaginare un cambiamento, è una verità che varrebbe la pena di verificare: per non cadere nella trappola di ritenere che i risultati possano passare solo per gli aumenti di spesa, e non per le riforme.
Tanto per iniziare, le società partecipate. sommando i quasi 25mila dipendenti diretti con gli almeno 35mila delle municipalizzate si supera quota 60mila, per non parlare della giungla di controllate che compone un groviglio pressoché inestricabile. Dinanzi a un deficit comunale crescente e a una drastica riduzione della qualità dei servizi pubblici anche essenziali, l’unica soluzione possibile è quella da un lato di mettere a gara i servizi gestiti dalle aziende comunali, e dall’altro di dismettere le società che non svolgono servizi essenziali, rappresentando quindi solo costi e strumenti di consenso: misura, quest’ultima, che era già stata indicata dal piano di rientro varato nell’estate del 2014 come elemento essenziale per ripianare i 440 milioni di euro necessari a garantire il “salva Roma”, ma della quale fino ad oggi non esiste ancora traccia.
Una rivoluzione? Su questo fronte, non si direbbe proprio. La difesa a oltranza dei consueti gruppi di potere clientelare, ideologicamente attenti ai beni comuni ma nei fatti incoercibili al cambiamento perché sistematicamente protesi a difesa dei propri interessi, sembra una priorità di questa amministrazione almeno tanto quanto le altre. Un’istanza conservatrice, dalla quale non si potrà ricavare che un ulteriore aggravamento della situazione: opacità gestionali, dissesto finanziario e deterioramento della qualità dei servizi.
L’ATAC, ad esempio, ha più di 12mila dipendenti, e in dieci anni ha accumulato perdite per un miliardo e mezzo; gli autobus hanno un’anzianità media vicina ai dieci anni, e attualmente uno su quattro è inutilizzabile; gli autisti di tram e metro guidano in media meno ore dei loro colleghi di Napoli e di Milano, tanto che ogni giorno ne resta a casa uno su sei.
Ci vorrebbe molto, in una condizione del genere, a comprendere la necessità di una riforma strutturale? E’ plausibile continuare a individuare i cosiddetti “beni comuni” nelle partecipate in sé e per sé, anziché nei servizi che esse dovrebbero offrire ai cittadini, e per i quali non esiste tuttora alcuno strumento di valutazione oggettivo?
I servizi. Altra parola magica. Perché l’altro grande cambiamento, quello che risulterebbe decisivo per risollevare la situazione finanziaria della capitale, è proprio il modello di erogazione dei servizi. Non è difficile calcolare l’enorme incremento di costo di cui l’Amministrazione si fa carico in relazione a una serie di attività affidate a terzi, come ad esempio l’assistenza domiciliare a disabili e anziani, che si gonfiano proprio in quel punto di passaggio, offrendo una qualità modesta e talora provocando vere e proprie situazioni di sfruttamento nei confronti degli operatori: come i 25 euro l’ora spesi dal Comune, che finiscono solo in minima parte (6 o 7 euro) nelle tasche di chi materialmente provvede al servizio, mentre la differenza rimane nelle tasche delle cooperative che l’hanno avuto in affidamento. Non è quindi difficile comprendere che offrendo alle famiglie un buono spendibile per ottenere in proprio quei servizi, scegliendoli tra quelli disponibili sul mercato, si otterrebbe un risultato molto migliore: tutelando la libertà di scelta dei cittadini, contenendo le spese e al tempo stesso garantendo prestazioni di qualità molto più elevata.
Tutto ciò, naturalmente, al netto delle normali misure di razionalizzazione e di efficientamento che pure sarebbero necessarie e che tuttora mancano: a partire dal sistema dei controlli interni, anch’esso invocato dalla relazione dell’Oref, che a tutt’oggi non risulta ancora implementato.
Il vero cambio di direzione e di passo, tuttavia, passa proprio per le riforme strutturali: le stesse che noi Radicali abbiamo prima proposto all'allora Sindaco Marino e poi offerto in campagna elettorale al candidato Giachetti. E che occorrerebbe, al di là dei proclami elettorali, avere il coraggio di immaginare davvero, magari scontrandosi, una volta per tutte, con le istanze conservatrici che da troppo tempo paralizzano questa città: per evitare di unirsi al nutrito (e trasversale) partito dei bancarottieri che hanno portato Roma sull’orlo del baratro.