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Qualunque referendum è sempre un contenitore giuridico con un doppio fondo politico, una matrioska di contenuti diversi e non necessariamente coerenti. L'esito di un referendum non è mai, semplicemente, l'abrogazione o la conferma di una legge o di una norma contestata e rimessa al vaglio diretto dei cittadini, ma la misura della "temperatura" e dell'orientamento generale dell'opinione pubblica.

Dal 1970 ad oggi i referendum hanno annunciato grandi cambi di stagione, come quello del 1974 sul divorzio, che fu la seconda e definitiva breccia di Porta Pia nella storia dello Stato unitario, o quelli dei primi anni '90 sulle leggi elettorali, che aprirono, già prima dell'inizio di Tangentopoli, la strada della Seconda Repubblica. In altri casi i referendum hanno invece certificato la fine di esperienze politiche gloriose e apparentemente solide, come accadde nel 1985 con il referendum sulla scala mobile, che segnò, con qualche anno di anticipo sulla caduta del Muro, la fine del PCI, o quello sul nucleare e sui servizi pubblici locali del 2011, che recapitò l'avviso di sfratto al governo Berlusconi e sancì di fatto la fine del berlusconismo come fenomeno maggioritario e meccanismo unificante del centro-destra italiano.

La strumentalità dei referendum è quindi connaturata al mezzo e non dipende solo dal fine più o meno ambiguo e pretestuoso dei promotori. Nel caso dei referendum più tecnici - come quello che andrà al voto domenica prossima - il rischio della bufala è però ingigantito dagli inevitabili deficit informativi e cognitivi dell'opinione pubblica e dalla pregnanza meramente simbolica del pronunciamento popolare. Quanto più, a fronte di temi particolarmente sensibili, il cosiddetto significato di un referendum divorzia dal suo contenuto, tanto più l'esito del voto rischia di essere equivoco e politicamente "sporco".

Quest'uso plebiscitario - non democratico - del referendum abrogativo è un fenomeno relativamente recente e comporta un evidente deterioramento della credibilità e dell'effettiva servibilità dell'istituto referendario. Dopo avere intossicato la democrazia rappresentativa, il populismo sta infiltrando anche la democrazia diretta.

Nel 2011, la grande maggioranza degli italiani andarono a votare convinti di dovere pronunciarsi a favore o contro la "privatizzazione dell'acqua" (che non era stata affatto privatizzata), e non sulle modalità di affidamento e gestione dei servizi pubblici locali (non solo di quelli idrici). In modo analogo, domenica prossima, la grande maggioranza di quanti andranno ai seggi voterà come se il problema fosse quello di sventare (o autorizzare) un piano massiccio di "trivellazioni" lungo le coste italiane, quando il quesito riguarda solo un aspetto residuale della disciplina delle concessioni in scadenza per le piattaforme attualmente operanti, poiché il governo ha già recepito, nell'approvare la legge di stabilità 2016, tutte le richieste del comitato referendario, e sbaraccato la normativa più recente - in parte del governo Monti, in parte dell'attuale esecutivo - che avrebbe dovuto rilanciare la produzione nazionale di petrolio e soprattutto di gas.

Il paradosso è che il comitato referendario domenica perderà, dopo avere di fatto già trionfato. Invece il governo potrà cantare vittoria, dopo essersi già sostanzialmente arreso alla propaganda no-triv. Un risultato politicamente inquinato, che dal 18 aprile rischia di fomentare ulteriori sospetti e pregiudizi contro la "lobby del petrolio", ma di non migliorare affatto le prospettive dell'industria energetica nazionale.

@carmelopalma