Il vero rischio euro-islamista non è quello terrorista
Istituzioni ed economia
Nella sfida islamista è incubato un rischio esistenziale per la società occidentale, che non è - almeno nel medio termine - quello della capitolazione militare e della sottomissione politica all'esercito del Califfo. Questo è un incubo tutto sommato consolatorio, un esorcismo per sfuggire alla consapevolezza di un pericolo più indeterminato, ma assai più prossimo, destinato ad aggravarsi con la (inevitabile) crescita demografica di un islam occidentale, ma non occidentalizzato, formalmente rispettoso delle "nostre" leggi, ma di fatto incompatibile con la "nostra" cultura.
La minaccia islamista politicamente più concreta e incombente, in particolare nel vecchio continente, non è quella legata all'improbabile arruolamento nelle milizie della jihād di migliaia e migliaia di europei di seconda generazione, ma quello della disgregazione della società europea e del separatismo civile islamico, sul piano del costume personale e familiare, delle abitudini di vita e dell'organizzazione comunitaria.
Si tratta di una minaccia che sarebbe ingenuo fronteggiare con un patto giuridico sul rispetto di principi costituzionali impliciti e espliciti - pensiamo a quelli più frequentemente evocati relativi alla condizione femminile e alla libertà religiosa - che il tradizionalismo coranico non sfida nella lettera, ma svuota nel loro effetto e usa (e sempre più userà) in maniera prevedibilmente spregiudicata: "Come osate violare i vostri valori per impedire alle "nostre" donne, contro la loro volontà, di portare il velo, di vivere chiuse in casa e di adempiere ai doveri loro imposti da un Dio in cui liberamente credono"?
Un altro favore che bisognerebbe evitare di fare alla causa dell'islam separatista è di concedergli una patente di autenticità religiosa superiore a quella degli islamici integrati e integrabili. Operazione grottesca e autolesionistica, come quella di qualificare gli alienati nichilisti di Molenbeek - responsabili degli attentati di Parigi e di Bruxelles e passati dalla criminalità di strada allo stragismo senza quasi passare da una moschea - come i rappresentanti del vero Islam globale.
Per banale che possa apparire, non esiste un modo diverso per "compatibilizzare" l'islam europeo - quello silente, sfuggente, diffidente e auto-ripiegato - se non quello di europeizzarlo. Il che è qualcosa di molto diverso da un esercizio di apertura e di condiscendenza multikulti e di tolleranza, per così dire, etnografica. Ma è anche qualcosa di molto diverso da quella sorta di contro-clericalismo ateo, che vorrebbe disseminare la "nostra" terra di croci (e di muri), o di divieti cretini e discriminazioni odiose e indifendibili. Non è vero che dobbiamo semplicemente accettare l'Islam che c'è, nella speranza che migliori, ma neppure dobbiamo semplicemente reprimerlo nel timore che peggiori, perché in un caso o nell'altro si tratterebbe di una scelta suicida e di quell'auto-tradimento che la pubblicistica apocalittica vaticina come destino segnato dell'Occidente.
Dobbiamo proprio (culturalmente) conquistare, cioè convertire, la maggioranza degli islamici ad una religione civile, che ha già convertito le chiese cristiane d'Occidente, della cui cultura essa stessa però era, almeno in parte, tributaria. Con l'Islam si gioca un'altra partita, soprattutto politicamente, perché assai meno "domestica" e inserita nei travagli storici irrisolti della stagione post-coloniale, oltre che in tutte le complicate partite e guerre interne al mondo islamico. Ma è una partita che non si può vincere tracciando un confine etnico-religioso dentro la "nostra" società, o tra la nostra e quella "altrui". Servono proprio i boots on the ground, non solo in senso militare e non solo in terra islamica.