Luca Coscioni, l'Italia e il tempo che abbiamo perso
Istituzioni ed economia
Non ho molto tempo, non abbiamo molto tempo. Queste parole, Luca Coscioni, le ripeteva spesso. Professore di economia e maratoneta costretto dalla diagnosi di una malattia incurabile, la sclerosi laterale amiotrofica (SLA), ad abbandonare lo sport e l'insegnamento, aveva conosciuto Radicali Italiani e deciso di entrare in politica per portare avanti la causa della ricerca scientifica in Italia.
Non ho molto tempo, non abbiamo molto tempo. Luca Coscioni voleva vivere, voleva continuare a esistere e fare politica, s'infuriava contro chi lo trattava da "povero handicappato strumentalizzato", volle addirittura fondare un'associazione che portasse (che tuttora porta) il suo nome, appositamente per occuparsi della questione della ricerca scientifica dal punto di vista politico. La sua vicenda riassume perfettamente il perché trattare i cosiddetti "diritti civili" come qualcosa di secondario, di non indispensabile, come un capriccio di élite sazie e incoscienti sia tanto superficiale quanto sbagliato, sia per le vite degli individui, sia per la ricchezza materiale e culturale del Paese in cui essi vivono.
Non ho molto tempo, non abbiamo molto tempo. Il giorno della morte di Luca Coscioni, il 20 febbraio 2006, dieci anni fa quasi precisi, era passata una manciata di mesi dal giorno in cui l'indifferenza degli italiani (compresi quelli che oggi straparlano di sprechi della KA$TA e guerra in Siria) per la politica aveva condannato il referendum sulla legge 40 al fallimento; era passato un anno e mezzo da quando il Parlamento dell'epoca aveva deciso di approvare, contro tutte le indicazioni della comunità scientifica, una legge mal scritta, mal pensata e sostanzialmente inapplicabile, che rendeva difficilissima la fecondazione assistita e pressoché impossibile la ricerca sulle cellule staminali embrionali, le più promettenti per la cura di malattie come la SLA.
Non ho molto tempo, non abbiamo molto tempo. C'è voluto quasi un decennio perché, pezzo dopo pezzo, quella legge, emblema della chiusura ottusa e superstiziosa della politica italiana di fronte alla scienza, venisse "smontata" per via giudiziaria: dieci anni in cui i tribunali avrebbero potuto occuparsi utilmente di altre cause, dieci anni persi per i ricercatori italiani, per le possibilità di sviluppo del nostro Paese, ma soprattutto per coloro i quali, come Coscioni, dalla scienza dipendono, perché solo dai progressi della ricerca può venire una cura per le malattie di cui soffrono.
Non ho molto tempo, non abbiamo molto tempo. Luca Coscioni è stato condannato ad aspettare che l'Italia del "che c'importa a noi della scienza, noi siamo più furbi, noi abbiamo il sole e il mare, noi facciamo le arance a Rosarno" si svegliasse, condannato ad aspettare finché non ce l'ha fatta più, finché la malattia non ha compiuto il suo destino, portandolo via dalle sue battaglie politiche, dalla sua famiglia e da questa vita, l'unica, probabilmente, in cui credeva. Quell'Italia, naturalmente, non si è ancora svegliata, né percepisce che ci sia un'urgenza: la c.d. "libertà di coscienza" di pochi ha tenuto al palo - unico caso nell'Occidente democratico - la libertà di tutti, e pochissimi capiscono che una delle cause dell'attuale declino italiano è proprio questa.
Non ho molto tempo, non abbiamo molto tempo. Luca Coscioni è morto, ed è morto con la consapevolezza che lo stato in cui viveva aveva scelto di muoversi nella direzione opposta a quella che avrebbe consentito di salvare, se non lui, almeno altre migliaia di persone come lui. Luca Coscioni non poteva, e sicuramente non voleva, "aspettare le scuse di uno dei prossimi Papi": la sua esistenza e la sua lotta politica spiegano meglio di qualunque discorso il fatto che, mentre la discussione politica/etica/filosofica si incarta su dogmi e proibizioni, le persone soffrono e muoiono, e la qualità della vita di tutti peggiora.
Non ho molto tempo, non abbiamo molto tempo. "Le nostre dure esistenze non hanno bisogno degli anatemi dei fondamentalisti religiosi, ma del silenzio della libertà. Le nostre esistenze hanno bisogno di libertà per la ricerca scientifica. Ma non possono aspettare. Non possono aspettare le scuse di uno dei prossimi papi". Luca Coscioni è morto sapendo che la sua battaglia era ben lungi dall'essere vinta, ma forse nemmeno lui aveva presente fino a che punto sarebbe stato difficile continuare a combatterla. In Italia, nei dieci anni che sono passati dalla sua scomparsa, nel campo dei diritti civili non si è fatto praticamente nessun passo avanti; ancora peggio è andata nel campo più prettamente scientifico, dove la politica, gravata del peccato originale di aver scritto la legge 40 ispirandosi a dettami pseudo-religiosi piuttosto che alla libertà di ricerca, è ormai condannata (e che terribile coerenza si vede in questo) a inseguire le peggiori fobie complottiste su vaccini, terremoti, alimentazione e tutto il resto.
Non ho molto tempo, non abbiamo molto tempo. Dieci anni dopo la morte di Luca Coscioni, "le scuse di uno dei prossimi papi" per l'arretratezza scientifica e culturale in cui precipita, ogni giorno più profondamente, il nostro Paese appaiono un'ipotesi quanto mai remota, ma sempre più probabile delle impossibili scuse dei paladini della "libertà di coscienza" che materialmente hanno contribuito al disastro, e che continuano a vivere tranquilli, sapendosi "più uguali" degli altri in quanto a possibilità di andare a sposarsi, a curarsi o a fare figli nei Paesi in cui i diritti sono appannaggio di tutti, e non privilegio di alcuni.
Non ho molto tempo, non abbiamo molto tempo. Luca Coscioni aveva ragione (e quanto!), ma, per chi ha seguito la sua vicenda e cercato di far politica con lui, saperlo è ben lungi dall'essere una soddisfazione. Se il tempo stringeva dieci anni fa, a maggior ragione stringe adesso, in un Paese sull'orlo del default civile prima ancora che economico: il fatto che senza libertà non si riesca a crescere, e forse nemmeno a vivere, ma a malapena a sopravvivere è plasticamente evidente nell'Italia che non si riprende dalla crisi, dove il vittimismo e l'invocazione dell' "uomo forte" sembrano ormai l'ultima risorsa di un popolo di schiavi che non sanno di esserlo. Il tempo sta finendo, e sta ai pochi che non vogliono arrendersi al male, questo sì incurabile per sempre, della memoria breve all'italiana ricordare la lezione di Coscioni, cercando di metterla in pratica prima che sia troppo tardi. Senza aspettare scuse che non servirebbero, comunque, a nulla.