beppe grillo senato

La possibile "cangurizzazione" della discussione del ddl Cirinnà, come risposta all'ostruzionismo congegnato dal fronte contrario, ripropone uno scenario che in questa legislatura ha già visto numerosi precedenti. L'uso "bellico" del diritto parlamentare, tra strategie di sabotaggio e contro-sabotaggio, è destinato a trasformare i regolamenti e la prassi delle camere in un deposito di pretesti d'occasione, utili a giustificare qualunque pretesa.

A cospirare verso una deriva para-condominiale della vita parlamentare sono diversi fattori. Tecnologici, si pensi ad esempio al generatore automatico di emendamenti, che nessuno ha mai scritto, né letto, usato da Calderoli contro il ddl Boschi. O culturali, vista la sostanziale estraneità, quando non il disprezzo, di molti eletti "nativi-antipolitici" (non solo di opposizione) verso la liturgia parlamentare e la loro diffusa abitudine a usare gli spazi fisici e simbolici di Camera e Senato come un mero palcoscenico, non diversamente dal salotto di un talk show televisivo.

In questo quadro, dove tra parlare a Montecitorio o a Porta a Porta non c'è sostanziale differenza, anche il tema della rappresentanza è percepito in modo più personale e meno istituzionale e dei diritti e doveri degli eletti si tende a parlare in modo impropriamente morale. Così da una parte ci sono i severi richiami all'obbligo, cui essi sarebbero tenuti, di rispettare il contratto sottoscritto con gli elettori, del quale si fa interprete autentico il partito (o il capogruppo o Casaleggio). E dall'altra ci sono i generosi riconoscimenti della loro libertà di coscienza sui temi eticamente più sensibili, anche in questo caso selezionati o autorizzati dal partito (o dal capogruppo o da Casaleggio).

Con questa moralistica spoliticizzazione del rapporto tra rappresentati e rappresentanti, che ormai opera anche nel linguaggio comune (è tutto un florilegio di : traditori, riciclati, voltagabbana, venduti...), si perde il senso specifico della responsabilità degli eletti, che non è affatto quello di "obbedire" al proprio leader, o di "non disobbedire" alla propria coscienza quando questa è chiamata in causa (perché, in qualche caso non lo è?), ma di contribuire liberamente alla vita democratica delle istituzioni, rispondendo politicamente del proprio operato (e dunque anche rischiando l'espulsione, la non ricandidatura, la non rielezione, il discredito...). L'esclusione del vincolo di mandato non è un privilegio, o una tutela personale, ma il munus proprio della rappresentanza parlamentare, a garanzia della piena e responsabile libertà politica dell'eletto e dell'efficienza del gioco democratico.

Il vincolo di mandato, perfino rielaborato nella forma delle penali per danno di immagine inventate dal M5S, non è un argine alla deriva trasformistica, proprio perché di fatto, in una democrazia, essa non può che avere incentivi e disincentivi politici. I richiami disciplinari alla regola di maggioranza, come metodo di gestione ordinaria della dialettica interna, testimoniano semmai la rimozione poliziesca del dissidio culturalmente irrisolto tra rispetto formale del pluralismo e esigenza pratica di unità, in quanto condizione di forza politica. Si tratta di una sindrome centralistica decisamente diffusa nella storia repubblicana e assolutamente trasversale (dal PCI al M5S, passando per il partito berlusconiano).

Allo stesso modo la libertà di coscienza non è la graziosa concessione riconosciuta dai partiti agli eletti in voti particolarmente delicati, ma un alibi ipocrita per non assumere una posizione chiara, anche se non costrittiva, su temi controversi, in cui il costo opportunità di qualunque scelta è stimato superiore a quello di una non-scelta. Insomma, non c'entra nulla la coscienza degli eletti o la loro lealtà verso gli elettori. C'entra assai di più la cattiva coscienza di leader che, con prove di forza o generosità, provano a mascherare la propria indecisione o la debolezza del proprio partito. Per non parlare della vecchia abitudine della Cei ad appellarsi alla morale assoluta per travestire la propria convenienza.