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Nel commentare l’annuncio dato dalla Santa Sede vaticana di un prossimo incontro a Cuba tra Papa Francesco e Kirill, il Patriarca “di Mosca e di tutta la Russia” (secondo alcuni teologi ortodossi sarebbe però sufficiente dire “della Russia”), occorre prima di tutto sgombrare il campo da un equivoco in cui sono incorsi molti editorialisti, italiani e non, i quali hanno spesso lasciato intendere che si tratti di un evento di natura eminentemente politica e legato alle complesse strategie geopolitiche mondiali; qualcuno ha addirittura affermato, come l’editorialista de La Stampa, che si tratterebbe di un ricambio di cortesie da parte di Putin verso la mediazione papale che avrebbe favorito l’accettazione americana dell’intervento russo in Siria. Non che l’incontro annunciato non presenti indubbi risvolti politici, diretti e indiretti; e non va certo dimenticato, d’altra parte, che i due personaggi che si scambieranno il bacio cristiano a L’Avana sono a capo di organizzazioni ecclesiastiche che, sebbene assai diverse, hanno anche una spiccata propensione a giocare un ruolo politico-religioso. Ma comprendere le cose significa saperle distinguere e chiamarle per quelle che sono. E l’incontro di Cuba sarà soprattutto un incontro religioso tra due autorità spirituali, mentre le motivazioni dell’incontro sono di natura eminentemente religiosa ed ecclesiastica.

Sebbene molti continuino a credere ad un cesaropapismo ortodosso, va detto che già a partire dal VI secolo l’imperatore bizantino si dichiarava “servo e figlio della Santa Chiesa” e assumeva l’obbligo di mantenere l’unità della fede. Per cui, la Chiesa ortodossa russa è erede di un altro e più effettivo concetto bizantino, quello di “sinfonia”, vale a dire la fusione di orizzonti tra potere politico e forza spirituale; anche se si tratta di un concetto e di un atteggiamento generale che - come ha notato Meyendorff – è indicibile in termini puramente giuridici (tranne la vaga nozione di una distinzione tra due poli morali, la potestas imperiale e l’auctoritas patriarcale), la sua forte incidenza nelle società in cui è prevalso il cristianesimo “greco” o ortodosso ha comportato in esse un certo primato della politica (alle cui le ragioni le stesse autorità religiose ortodosse sono sempre state molto sensibili) e del potere politico; ma in termini complessivi si trattava (e si tratta) di limitazioni e di reciproco condizionamento. Tutto ciò corrisponde pertanto ad un’autonomia organizzativa, spirituale ed intellettuale del potere religioso nelle società ortodosse, per quanto in epoca sovietica tutto ciò sia stato ridotto al minimo e il Kgb abbia pesantemente infiltrato le strutture ecclesiastiche russe. E, ancora oggi, lo stile di vita del Patriarca moscovita assomiglia molto a quello di un altissimo funzionare statale.

Resta il fatto che i principali obiettivi della Chiesa russa odierna sono di carattere politico-religioso (soprattutto da quando Kirill ne è a capo) e si muovono lungo quattro direttrici principali: rafforzare il ruolo dominante della Chiesa ortodossa russa nella società russa, puntare alla supremazia nell’ortodossia mondiale sostituendosi all’attuale Patriarca ecumenico di Costantinopoli, ricostituire l’unità politico-religiosa imperiale e sovietica (obiettivo, quest’ultimo, che è anche funzionale al raggiungimento del primato ortodosso), ergersi infine a grande istituzione spirituale internazionale capace di guidare la resistenza agli aspetti “deteriori” e anti-cristiani della modernizzazione.

Il primo obiettivo era stato già raggiunto alla fine dell’era di Eltsin, quando la legge del 1997 sulle organizzazioni religiose aveva restituito alla Chiesa ortodossa un primato legale e aveva frapposto forti ostacoli alla diffusione del protestantesimo e del cattolicesimo in Russia. Dopo la sua elezione nel 2009 Kirill aveva poi elaborato la dottrina del Russkij mir (Mondo Russo) cioè dell’unità religiosa indissolubile tra Russia, Ucraina, Bielorussia e Moldovia: si tratta di una dottrina aggressiva e intollerante nei confronti delle aspirazioni all’autocefalia e all’indipendenza culturale di quelle terre; una dottrina che ha non poche responsabilità nell’aver creato l’humus politico su cui si è innestata nel 2014 la guerra nell’est dell’Ucraina; ma si tratta anche di una dottrina che serve a garantire alla Chiesa russa un ruolo preponderante nel mondo ortodosso, per numero di fedeli, di centri di organizzazione religiosa, di luoghi di vita spirituale. Senza l’Ucraina (che ha un numero di parrocchie e di fedeli superiori a quelli della stessa Russia) i sogni di Kirill di scalzare il Patriarca ecumenico svanirebbero; l’importanza per lui, di non alienarsi le simpatie degli ucraini spiega ad esempio la sua singolare assenza alla solenne cerimonia di annessione della Crimea, presieduta nel 2014 da Putin e a cui hanno invece partecipato le più alte autorità religiose islamiche ed ebraiche della Russia. D’altra parte, la diminuzione dei consensi verso la Chiesa ortodossa russa che si sta manifestando in Ucraina negli ultimi mesi e che non ne fa più la confessione ortodossa maggioritaria (il numero dei fedeli ucraini che si riconoscono nell’autoproclamato Chiesa autocefala ucraina sarebbe diventato recentemente superiore a quello di coloro che rimangono all’interno della Chiesa russa), rende la sua posizione ancor più scomoda e sta dando luogo a qualche presa di posizione più dura da parte di Kirill nei confronti degli “scismatici” e dei “nazionalisti” ucraini.

La Chiesa ortodossa russa si proclama, d’altra parte, “multinazionale”; e ciò non solo al fine di ricomprendere in sé fedeli di nazionalità ucraina, bielorussa, ecc., ma probabilmente anche al fine di fare di se stessa una sorta di Chiesa universale ortodossa in fieri. Sul mondo ortodosso spirano infatti venti inquieti legati a questioni ecclesiologiche complesse, che qui non affrontiamo, limitandoci a indicare che il problema della giurisdizione ecclesiastica sulle comunità della diaspora (chi deve guidare i milioni di ortodossi che ormai vivono in Europa occidentale, nelle Americhe, in Oceania?) si lega strettamente a quello del primato ecclesiastico ortodosso. Una questione che sembra essere giunta vicina alla sua risoluzione poiché sarà al centro del Grande concilio panortodosso del 2016, preparato da circa cinquant’anni e che sarà il primo della storia (i sette concili del primo millennio riconosciuti dalle chiese ortodosse avvennero prima della separazione tra cattolici e ortodossi).

L’incontro di Cuba rientra dunque nel quadro delle strategie preconciliari di Kirill, che è alla ricerca di un autorevole ed ecumenico endorsement da parte di Papa Francesco. Per ottenerlo Kirill fa un passo indietro sostanziale: era lui che si rifiutava di invitare il Papa in Russia accusando i cattolici di proselitismo, di annessionismo nei confronti del territorio canonico della Chiesa russa (dopo la creazione di diocesi cattoliche in Russia da parte di Giovanni Paolo II) e soprattutto di appoggio ai greco-cattolici, i cosiddetti uniati, cioè fedeli di rito ortodosso ma che hanno riconosciuto nel 1596 il primato papale, i quali sono circa il 10% degli ucraini (concentrati in Ucraina occidentale) e la cui Chiesa era stata liquidata nel 1946 da Stalin. Ora, fare l’incontro in Russia sarebbe stato per Kirill ancor peggio e quindi egli ha preferito questa soluzione, che avrà come scenario non a caso L’Avana, dove è stata costituita un’eparchia della Chiesa russa ed edificata una cattedrale ortodossa. Per il Vaticano, dal canto suo, si tratta dunque di un indubbio successo ecclesiastico e religioso, sebbene parziale e i cui frutti andranno coltivati attentamente nei tempi futuri.

Resta lo spinoso problema ucraino: molti cittadini ucraini non si sono mai sentiti sufficientemente appoggiati dal Vaticano nella loro lotta per l’indipendenza reale dalla Russia e per la creazione di una società più libera e giusta nel loro Paese; la Chiesa cattolica romana (a differenza dei greco-cattolici) è stata freddina nei confronti della rivolta dell’Euromajdan. Si tratta di dubbi e lamentele che hanno una base reale, poiché questo Papa è portatore (come è naturale che sia) di una visione globale influenzata dal fatto di essere un uomo dell’America latina e quindi tendenzialmente alieno alle secolari dispute ecclesiastiche della Vecchia Europa: pur essendo stato assai vicino ai greco-cattolici argentini ha ad esempio recentemente fatto capire di ritenere l’uniatismo un errore storico; egli poi non è sempre allineato agli interessi politici nordamericani e appare essere favorevole a un tendenziale multipolarismo. Aggiungerei che il suo stile relazionale, mentre è esplicito e talvolta dirompente nelle questioni interne alla Chiesa cattolica, negli affari internazionali appare essere un po’ troppo diplomatico e sotterraneo, privo della chiarezza “profetica” tipica di Giovanni Paolo II (forse anche come effetto dei ripetuti “infortuni” mediatici in cui è incappato Benedetto XVI nel corso del suo pontificato).

Non sappiamo quali saranno i contenuti del colloquio cubano e del conseguente comunicato ufficiale; neanche conosciamo gli esiti del Grande concilio panortodosso. Se dovessi azzardare delle previsioni, direi che nel primo caso, anche perché si tratta di un evento solo simbolico benché importante, i fatti daranno ragione al primate greco-ortodosso ucraino che ha dichiarato in questi giorni di non aspettarsi granché di nuovo dal colloquio; nel secondo caso ritengo che Kirill non otterrà quel primato ortodosso che cerca, né alla fine del Concilio né dopo. Anzi, penso che sulla questione dell’organizzazione delle chiese della diaspora, per il carattere fortemente dottrinale che la caratterizza (ci sono di mezzo principi teologici ed ecclesiali fondamentali, quale quello dell’unica chiesa e dell’unico vescovo nello stesso territorio), ci sia il pericolo reale di uno scisma nella Chiesa ortodossa, con Chiesa russa, rumena e bulgara (favorevoli a una loro giurisdizione universale) da una parte e il resto degli ortodossi dall’altra.

Penso infine che gli ortodossi autocefali ucraini, alcuni dei quali hanno criticato duramente l’annuncio del prossimo incontro, dovrebbero presentarlo per quello che è: alimentando l’idea che così il Papa faccia un favore a Putin essi commettono un autogol clamoroso.