Brusadelli banconota grande

Il profondo rosso segnato nei giorni scorsi dalla borsa di Shanghai ha gettato nel panico tutte le piazze finanziarie del pianeta, spingendole prima a fondo e poi abbandonandole alla solita altalena. I segni "più" visti ieri da qualche parte nel vecchio continente hanno fatto già parlare molti di rimbalzo. Alcuni addirittura di euforia, generata dalle strategie messe in campo dalla banca centrale cinese. Ma chiaramente si tratta di quello che a Wall Street chiamano "rimbalzo del gatto morto". Persino la borsa di Atene ha registrato un rialzo a due cifre, ma questo non è certo un segnale di buona salute per l'economia greca. Inutile illudersi dunque.

Nell'Impero del Dragone le statistiche ufficiali non sono mai state granché trasparenti. Nella golden age dell'era post comunista il paese ha registrato una crescita veramente impressionante. Poi, dall'inizio della grande crisi, cosa stesse accadendo realmente al gigante asiatico è rimasto a lungo un mistero. Ora, però, il cedimento della bolla finanziaria e il continuo peggioramento di tutti gli indicatori della congiuntura reale non lasciano spazio a equivoci. Il rallentamento o forse, peggio ancora, la frenata dell'economia cinese si sta materializzando in tutta la sua portata.

Che destino beffardo: proprio quando l'ipotesi di una ripresa pareva diventare concreta, dalla Cina arriva la tempesta che, insieme alle speranze dell'economia, spazza via le illusioni e i tentativi di una tecnocrazia ormai stremata da anni di crisi. Purtroppo i problemi che hanno scatenato la tempesta non svaniscono in un giorno. Affondano le radici nello squilibrio che il sistema economico e finanziario mondiale ha accumulato per oltre quindici anni. E la loro soluzione è ancora lontana.

La metafora che meglio raffigura la condizione attuale dell'economia mondiale e delle istituzioni a cui spettano le decisioni chiave, ironia della sorte, arriva dalla cultura dell'antica Grecia. Da un episodio dell'Odissea. Quello dove i compagni di Ulisse, avidi e ingenui allo stesso tempo, aprono l'otre di Eolo liberando tutti i venti che vi erano intrappolati. Ulisse, sicuro ormai di avere raggiunto l'approdo a Itaca, dorme. E quando se ne accorge è troppo tardi: la tempesta si scatena ripiombando tutti in alto mare.

Il brusco rallentamento della Cina mette a rischio la crescita dell'economia mondiale. È superfluo ribadirlo, visto che fino a ieri oltre un terzo della crescita mondiale era garantita direttamente proprio dal Dragone. A soffrire saranno prima di tutto le economie dei paesi esportatori di materie prime, soprattutto di petrolio, che hanno già subito un duro colpo con lo scoppio della bolla sul prezzo del greggio. Paesi come il Venezuela e la Russia ne hanno fatto le spese. Ora si ridurranno ulteriormente le quantità domandate, e l'impatto sarà nuovamente negativo sui conti pubblici con effetti recessivi sulla domanda interna.

Anche le economie avanzate subiranno gli effetti negativi di una probabile “guerra delle valute”, quella che molti hanno già paventato la scorsa settimana, dopo il deprezzamento della valuta cinese nei confronti del dollaro. D'altro canto, il solo strumento a disposizione dei cinesi per spingere l'export e ridare fiato al manifatturiero è la svalutazione del cambio. Scenari alternativi a questo sono poco probabili. Anche perché la conversione del modello di sviluppo della Cina, dal fragile “export led” a una economia trainata dalla domanda interna, è rimasta un miraggio. Il gigante asiatico avrebbe dovuto metterla in pratica sin dal suo ingresso nel WTO, ma così non è stato.

Tenuto conto dei cospicui avanzi della bilancia commerciale cinese, negli ultimi dieci anni lo yuan avrebbe dovuto rivalutarsi molto più di quanto ha fatto. Un vecchio amico economista, già qualche anno prima della grande crisi, sosteneva che la crescita equilibrata dell'economia mondiale avrebbe richiesto una rivalutazione dello yuan di circa il 50 per cento. Che la domanda interna della Cina avrebbe dovuto progressivamente sostituire la domanda estera. E che così il paese sarebbe diventato una locomotiva eccezionale per l'intera economia mondiale, e un motore di sviluppo economico e sociale per i cittadini cinesi.

Niente di tutto questo è avvenuto. La piena rivalutazione dello yuan è stata frenata dalle autorità cinesi, che hanno saputo bilanciare gli ampi avanzi commerciali con flussi netti di capitale in uscita. In altri termini, hanno utilizzato le riserve accumulate con con gli avanzi commerciali per fare shopping nei sistemi industriali e finanziari di tutto il mondo e per raffreddare l'apprezzamento altrimenti inevitabile della loro valuta. Poco, invece, hanno fatto per alimentare la domanda interna.

Per quale motivo le maggiori economie del globo, Usa e Ue in primis, hanno accettato questa sorta di dumping valutario da un membro del WTO senza battere praticamente ciglio? La spiegazione non è difficile: buona parte dei flussi di capitale in uscita dalla Cina sono serviti ad acquistare titoli del debito pubblico americano. Volete avere un'idea dell'ordine di grandezza del fenomeno? Nel lontano duemila la Cina deteneva appena 60 miliardi di dollari in treasury bond americani. A fine 2013 aveva raggiunto il massimo storico di 1.320 miliardi di dollari! Con un incremento, dal 2008 al 2014, di quasi 900 miliardi. Un ammontare imponente se si pensa che, nello stesso periodo, il debito pubblico americano è aumentato di circa 7.000 miliardi di dollari, e che la Fed con il quantitative easing (QE) ne ha praticamente coperti 1.700 miliardi. La Cina, dunque, ha contribuito alla copertura del fabbisogno finanziario americano con uno sforzo pari a oltre la metà di quello della Fed. In poche parole ha operato, di fatto, come un vero e proprio creditore di ultima istanza degli Stati Uniti.

Che in quella fase agli americani importasse molto più coprire i propri debiti piuttosto che difendere la competitività dell'export è pacifico. D'altro canto, tra i prodotti esportati dagli americani e quelli esportati dai cinesi non vi è una vera concorrenza di prezzo. I primi a più alto contenuto di tecnologia e capital intensive, i secondi a più bassa tecnologia e labour intensive. I cinesi, peraltro, non hanno abusato della leva del cambio e lo hanno comunque tendenzialmente rivalutato, sfruttando così una ragione di scambio favorevole per l'acquisto delle materie prime e del petrolio necessari a sostenere la crescita della loro economia.

Che lo vogliate o no, questo è stato il modello che ha governato l'evoluzione dell'economia globale dai primi anni duemila fino a oggi. Non è avvenuto quello che molti idealisti auspicavano alla fine del secolo scorso, cioè che la Cina post comunista diventasse il nuovo, vero motore dell'economia mondiale. Nella fase più spinta della globalizzazione, invece, l'economia mondiale ha vissuto una condizione di crescente squilibrio, nella quale soprattutto gli Usa, ma per certi versi anche la Cina, hanno drogato la propria crescita interna e gonfiato bolle immobiliari e finanziarie che hanno minato e continuano a minare la stabilità finanziaria globale, tenendo ancora “sotto schiaffo” la crescita mondiale. Il resto del mondo, Europa inclusa, è rimasto sostanzialmente a guardare.

La crisi economica e finanziaria cinese è solo un altro nodo che arriva al pettine. Ora la Cina dovrà iniettare liquidità nel proprio sistema per evitare il collasso. La svalutazione del cambio la settimana scorsa è il segnale che ormai la fuga di capitali dalla Cina è quasi fuori controllo. I tempi in cui le autorità compravano T-bond americani per raffreddare la rivalutazione dello yuan sono lontani. Ora i capitali scappano da soli. Principalmente a causa delle aspettative pessimistiche sulle prospettive del gigante asiatico, ma non solo.

Anche il Dragone, dopo la Fed e la BCE, si appresta a mettere in campo il proprio QE. E il rialzo dei tassi annunciato da tempo dalla Fed, alimentando ancor più la fuga di capitali dalla Cina, non farebbe che accrescerne l'urgenza e la dimensione. Quindi non è escluso che la stessa Fed sarà costretta a rinviare l'aumento dei tassi di interesse negli Stati Uniti. E così, il ritorno alla normalità, alla normale gestione della politica monetaria, e a un normale funzionamento dell'economia e della finanza mondiale, si allontana ancora una volta. La tempesta cinese ci ha ributtato tutti in alto mare.