Il panico cinese e il crollo delle illusioni sul comunismo di mercato
Istituzioni ed economia

Panico, certo. Come quello descritto nella popolare vignetta che riappare con regolarità ad ogni repentino ribasso di borsa. Ma non solo: dietro il lunedì nero partito dalla Cina e piombato come un treno in corsa sulle piazze finanziarie dei cinque continenti si nascondono diversi paradossi, e molti motivi di seria preoccupazione.
Effettivamente un’economia che cresce al 7% (o al 5%) invece che al 10% - valori che noi abbiamo lasciato dietro le spalle da decenni - è un’economia sulla quale vale ancora la pena scommettere e investire. Eppure un drastico ridimensionamento delle stime di crescita reale, benché sempre in segno abbondantemente positivo, della Cina, porta con sé necessariamente dei contraccolpi enormi laddove sulle dimensioni di questa crescita e sulla sua durata secolare si è investito di più. Materie prime, innanzitutto, in quei paesi che hanno finora nutrito la locomotiva asiatica a suon di minerali, combustibili fossili - già provati dal crollo del prezzo del petrolio -, cereali e chi più ne ha più ne metta. E poi, a catena, l’energia, la logistica, i trasporti su lunga distanza…
Lo scoppio della bolla cinese, il ridimensionamento della sua crescita su valori più realistici e terreni assesta al tempo stesso un colpo fatale nella fiducia nel capitalismo di stato cinese e nelle sue statistiche truccate, che hanno destato molto meno scandalo di quelle greche o argentine, finché tutto andava bene. Ridimensiona la speranza, coltivata a lungo in Occidente, che il controllo del partito comunista sulla politica in un’economia di mercato potesse attenuare, o meglio ignorare, gli attriti sociali che dalle nostre parti rallentano i tempi di reazione delle autorità pubbliche nelle crisi sistemiche. Le cose andranno male in Cina? Ci penserà lo Stato a rimettere le cose a posto, in quattro e quattr’otto. Non hanno mica Tsipras, loro, o la Merkel, e i fastidiosi ed eterni meeting di Bruxelles in cui si mastica aria fritta e non si viene mai al dunque.
Una illusione, quella che l’economia di mercato sia più efficiente in uno stato di sospensione della democrazia, nutrita già in Sudamerica, alcuni decenni orsono: anche oggi le cose non stanno andando secondo programma, benché continuino ad andare secondo logica, come dimostra il temerario tentativo di gonfiare gli investimenti azionari, che di questa crisi è stato il detonatore, e le contradditorie reazioni degli ultimi giorni a una frana che stava diventando sempre più inarrestabile.
E poi ci sono i rischi per l’Europa, che pur non esportando tonnellate di ferro o barili di greggio si è mostrata fragile di fronte alle crisi sistemiche degli ultimi anni: oggi il pericolo passa per la deflazione, che minaccia per forza di cose i paesi maggiormente indebitati nello scenario di contrazione generalizzata degli investimenti e di rifugio nel risparmio di cui parla Francesco Daveri stamattina sul Corriere. E c’è l’Italia, che dopo aver importato dall’esterno - cambio euro-dollaro, calo del prezzo del greggio - una microripresa, rischia di essere più esposta degli altri ai contraccolpi dello scoppio della bolla cinese: rischi che si corrono quando si è disabituati a camminare sulle proprie gambe.
