Nei giorni scorsi ha destato clamore la notizia secondo cui la Pirelli presto sarà sotto il controllo di ChemChina, un importante gruppo cinese. Altre indiscrezioni parlano di un possibile passaggio di proprietà di Pininfarina alla indiana Mahindra&Mahindra. Ancora due marchi storici dell'industria italiana che passano in mani straniere.

Pirelli cinesi

La notizia ha fatto decisamente breccia nell'immaginario collettivo degli italiani, ma in realtà non aggiunge gran che a quanto sappiamo già. Sia per quanto riguarda le tendenze di fondo dell'industria a livello nazionale e mondiale, sia per quanto riguarda il ruolo giocato dalla Cina in tutto questo.

I mutamenti della geografia industriale mondiale e la spinta alla concentrazione aziendale in molti settori non sono certo una novità. E nemmeno suona nuovo che le imprese cinesi investano massicciamente all'estero. Lo fanno da tempo, in modo sempre più mirato e funzionale allo sviluppo del loro capitalismo.

I cinesi stanno acquisendo aziende europee da almeno un decennio, con frequenza e volumi crescenti. L'Italia è investita in pieno da questa strategia. Fino al 2008 le fusioni e acquisizioni cinesi in Italia valevano circa un miliardo di euro all'anno. Poi sono cresciute sempre di più: nel 2014 hanno toccato i 18 miliardi di euro.

Il processo è iniziato negli anni '90, con l'acquisizione del controllo di risorse primarie, fonti di energia e materie prime nei paesi in via di sviluppo. Con il passare del tempo, e come ovvio riflesso dell'evoluzione industriale, le strategie cinesi di investimento all'estero si sono perfezionate e sono anche cambiati i paesi target delle acquisizioni.

Oggi nel mirino del "dragone" ci sono i paesi sviluppati occidentali. Ci sono le aziende in grado di assicurare disponibilità di tecnologie e know-how avanzato, accesso alle reti di distribuzione e proprietà di marchi affermati nel mondo. Ci sono l'agroalimentare, l'hi-tech, l'immobiliare e le parti ad alto valore aggiunto nella value chain globale dell'automotive. I cinesi investono in Pirelli proprio per acquisire un pezzo importante di quest'ultima catena del valore, e con esso la tecnologia che ingloba e l'accesso ai mercati dove è dislocata.

Di fronte a questi dati di fatto, i commenti allarmati dei sindacati, e dei soliti esponenti politici in cerca di audience, sono soltanto l'emblema di una visione datata e obsoleta dell'industria nazionale e dell'economia mondiale. Una visione che troppi si ostinano ancora a conservare, nonostante non abbia più senso parlare di "italianità".

Sarebbe bello se avessimo dei "campioni nazionali" in grado di controllare le catene del valore, di difenderle dagli "attacchi" degli stranieri. Certo. Nessuno nega che sarebbe bello. Ma la realtà che ci troviamo davanti è diversa, e in larga parte è il risultato di scelte che abbiamo fatto in passato. Questo non dobbiamo dimenticarlo.

Chi vuole è libero di rimpiangere tutti i campioni nazionali italiani che "avremmo potuto avere" ma che "non abbiamo". Quei campioni nazionali oggi non ci sono perché li abbiamo persi per strada, li abbiamo lasciati morire o scappare via. E comunque si troverebbero a fare i conti con una realtà globale non facile.

Quello di italianità dell'industria è un concetto fuori dal tempo. La dirigenza del gruppo Pirelli ha assicurato che la permanenza della sede principale e del centro di ricerca in Italia è fuori discussione - pare sia "blindata" da uno specifico accordo - e questo forse servirà a evitare contraccolpi negativi sull'occupazione nel breve periodo. Ma ormai il cuore e il cervello di quell'azienda sono fuori dal paese. E non da oggi, o dal giorno in cui si formalizzerà il passaggio del pacchetto di controllo. Sono fuori dal paese da molto tempo. A decidere il destino di quel pezzo di catena del valore in futuro non sarà più un soggetto economico italiano, ma un soggetto economico cinese.

Non siamo più l'ombelico del mondo. Probabilmente non lo siamo mai stati. Quello che dicono tutti è che serve una nuova politica industriale, ma continuare a illudersi e a illudere che ci si possa opporre con improbabili operazioni protezionistiche a difesa dell'italianità non è politica industriale.È assurdo che lo stato italiano si metta di traverso ostacolando certe operazioni con misure restrittive. Prima di tutto esse risulterebbero dannose per le stesse imprese nazionali coinvolte, e in secondo luogo ci renderebbero ridicoli agli occhi del mondo.

E nemmeno è politica industriale l'erogazione di incentivi a fondo perduto e sussidi a pioggia, effettuata in base a criteri discutibili, senza una chiara visione strategica e con il solo obiettivo di spartirsi il danaro pubblico. Che poi è l'unica politica che lo stato italiano è stato in grado di mettere in campo fino a oggi.

Invece di rifugiarsi nella solita italianità per spartirsi i soldi dei contribuenti, sarebbe il caso di prendere atto che la competitività è la capacità di attrarre e gestire le parti pregiate delle catene del valore. Quelle a maggior valore aggiunto, che assicurano effetti positivi a cascata sui settori collegati in termini di domanda, produzione e occupazione.

Noi, invece, continuiamo a puntare sui vecchi arnesi della politica macro-economica keynesiana. Sulla sospensione dell'austerità europea per aumentare di qualche decimale la spesa pubblica. Ci fa comodo credere che la svalutazione dell'euro farà recuperare competitività alla nostra economia, che il prezzo del petrolio aiuterà la ripresa e che tanto c'è la BCE di Draghi che stampa moneta. Ma non è così.

E il lato ironico di tutto questo è che proprio la svalutazione dell'euro in questo momento sta favorendo e accelerando lo shopping delle aziende italiane da parte dei cinesi. Quella "politica del cambio" che secondo i macro economisti dovrebbe favorire la nostra economia, in realtà, sta solo suggellando gli esiti di un processo di evoluzione globale in gran parte irreversibile, e del quale faremmo bene a prendere atto prima possibile.